Ma quale fu mai la fine di Zenobia? Abbiamo visto la sua bruna e maliosa figura trasvolare tra gli ori e i lampeggianti acciari del trionfo; è giusto rivolgere a noi stessi una simile domanda.
Narra ancora l'antico storico: «Aureliano le lasciò la vita. Si riferisce che assegnatole un podere in quel di Tivoli, podere che per più tempo portò il nome di Zenobia non lungi dalla villa di Adriano e dal luogo che si chiama Conca, qui essa vivesse insieme coi figli acconciatasi agli usi delle matrone romane ». Così dalle vaste e frementi ali della guerra essa discende e tramonta tra le chete dolcezze della vita famigliare. . . Nè questo senza nostro intimo e rasserenante sollievo. Non possiamo infatti dimenticare che alle falde del Campidoglio, a pochi passi dalla via dei trionfi sotto l'antica Arce, si apriva il nero gorgo del Tulliano dove trovavano orrenda morte non solo i rei, ma anche i più illustri prigionieri di guerra.
Più che una truce abitudine romana, era questo un principio legalmente ammesso nell' antichità: il capo di un esercito, se cadeva nelle mani del suo avversario, era messo a morte come un qualsiasi colpevole. La storia greca ci ripete il tragico caso dei due comandanti ateniesi Demostene e Nicia messi a morte in Siracusa; Cartagine ci addita il crudele fato di Attilio Regolo; Roma una lunga serie di re e di condottieri. Essi adornavano il corteo trionfale precedendo, incatenati, il cocchio del duce vittorioso. Lentamente per la via Trionfale e la via Sacra tra i canti licenziosi dei soldati e i frenetici applausi del popolo si giungeva al punto dove con uno stretto gomito cominciava il Clivo Capitolino. Qui il corteo improvvisamente sostava. A destra, nel fondo apparivano le tetre mura del carcere. I littori si avanzavano, staccavano dal carro i prigionieri e per una breve porta li immettevano nel Tulliano.
Il momento era di densa drammaticità. Tra tanta luce di gloria, tra tanto clamore di festa, tra tanto corrusco balenìo di armi, i prigionieri tremanti e smarriti rivolgevano un ultimo disperato sguardo all'aria, alla luce, alla vita. Poi le tenebre. L'umidore nauseante del carcere li stringeva alla gola, ottundeva gli orecchi, soffocava la vista. Oltre le grevi mura percepivano ancora, come in sogno, passare simile a un'immensa fiumana l'incomposto urlìo della folla. Sospinti tra il rosso fumigare delle fiaccole in una camera sotterranea dalle pareti fasciate di pesanti massi di tufo, i miseri erano fatti avanzare fin nel mezzo dove si apriva un oscuro foro circolare. Poi a uno a uno, mediante funi, erano calati nel basso e subito afferrati dal percussor...
Una sorte singolarmente benevola ci ha conservato pressochè intatto il luogo di così crudeli ricordi. Noi scendiamo in esso tremando. Il Tulliano, unica prigione di Roma antica, sorgeva proprio all'estremità del Foro, sotto l'Arce. Anzi esso risultava costruito sulla vetusta cisterna della rocca capitolina, come lo prova la parola stessa derivante da tullus sorgente. Anche in tempi più tardi un limaccioso ruscello andava di qui a gettarsi nella Cloaca massima.
Nei tempi più remoti il luogo era occupato pure da cave di pietra dette Lautumiae; il carcere però è rivestito con muri di tufo caratteristici delle opere costruite in Roma prima di Servio Tullio. Nel suo complesso, quale ancora si conserva, il carcere è quello che nell'anno 775 di Roma, 22 dell'era volgare, fu restaurato per opera dei consoli Caio Vibio Rufino e Marco Cocceio Nerva. Lo sappiamo dalla iscrizione a grandi caratteri che sovrasta la fonte d'accesso delle prigioni
Dolori e tragedie dunque! Imprecazioni, urla, inutili proteste, disperati richiami: il silenzio che oggi ravvolge il luogo non vale a placare gli efferati ricordi. Eppure ci distoglie per un amorevole senso di pietà, per un singolare contrasto, l'episodio - commovente nella sua umiltà - di un cane che seguì fin dove potè il suo padrone «nè dal carcere si riuscì a rimuoverlo nè ad allontanarlo dal corpo gettato sulle scale Gemonie».
Da queste scarne linee seppe con sommo magistero d'arte trarre ispirazione Giovanni Pascoli per il suo carme latino Iugurtha, nel quale rappresentò con compiuta efficacia tutta la torbida e feroce agonia del re numida.
tum tenebrae plenae regem videre silentes: rex oculos circum nequiquam volvebat apertos. . .
Immensa folla attendeva fuori del carcere e quando il console riapparve essa ondeggiò tumultuante e oppressa. Allora rispondendo alla muta e angosciosa domanda, Cicerone nel repentino e grave silenzio non pronunciò che una parola: « han vissuto ! vixerunt » ! Le urla incomposte di gaudio, le ebbrezze partigiane, il clamore che segui questa parola, il trionfale ritorno fino alla casa sul Palatino dovevano tornare più volte in mente a Marco Tullio quando pochi anni dopo per tali esecuzioni ritenute arbitrarie e illegali, egli dovè, per le mene di Clodio, andare in esilio.
Non passò molto tempo e le tragiche porte del Tulliano si aprivano per inghiottire nel nero baratro un autentico eroe: Vercingetorige re degli Arverni, il fiero oppositore di Cesare, il capo dell'insurrezione gallica. Stretto da formidabile assedio in Alesia, dopo memorabili prove di coraggio e inauditi sacrifici egli dovè capitolare. Il comandante romano si assise quel giorno su un alto poggio e dalla città stremata uscì il vinto re che a cavallo fece tre volte il giro del tumulo, quindi scese e presentò le sue armi ai piedi di Cesare. Fu incatenato e portato a Roma: il giorno del trionfo di Cesare fu spento nel carcere. Anche un altro re d'un altro popolo sottomesso a fatica doveva circa un secolo più tardi incontrare la stessa fine nelle stesse circostanze; Simone, figlio di Giosa, capo degli Ebrei insorti contro il dominio romano. Tito lo portò prigioniero a Roma e con sè l'addusse in quella pompa trionfale che ancora palpita nel marmo dei bassorilievi famosi dell' arco.
Con questo siamo giunti all' epoca imperiale. Anche qui nei fieri contrasti e nelle gare ambiziose il Tulliano rappresentò spesso l' ultima scena. Quanti audaci liberti, quanti cortigiani che Roma aveva così spesso ammirato e applaudito, ebbero il corpo trafitto rotolato giù per le Gemonie!
Il più celebre di questi fu, innegabilmente, Seiano, l'onnipotente ministro di Tiberio. Divenuto praefectus praetorio, riunì le coorti in un sol campo sul Viminale, convinse l'imperatore a lasciar Roma per Capri, e attese con fredda violenza e implacabile astuzia ad aprirsi la via verso il trono. Indusse Livia a propinare il veleno al marito Druso, riuscì a rovinare Agrippina e i suoi figli . . . Ancora un poco e sarebbe, forse, riuscito nel suo criminoso disegno. Ma il sospettoso Tiberio, informato di tutto e convinto finalmente della reità del suo ministro decise di procedere contro di lui. Dapprima usò cauta lentezza e blande perfidie. Poi fulmineo giunse il colpo di scena. In pieno senato Seiano fu arrestato da Sertorio Macrone e dopo sommario giudizio inviato nel carcere e messo a morte. La stessa sorte toccò ai figli, agli amici e ai partigiani di lui. Somma piètà provocò il fato inumano dei due più teneri figli dell'empio ministro, il figlioletto che il suo male intendeva e la figliolina, si pura, che diceva: «che io ho fatto ? dove mi trascinate voi ?..» e la mente arretra dinanzi ad alcuni altri particolari...
Lacrime e sangue! Nella breve angustia di queste mura quante tragedie! Eppure esclamava Giovenale: «felici gli avi dei nostri avi, felici i secoli, quando sotto i re e sotto i tribuni vedevano Roma starsi contenta di un sol carcere » !
Il carcere, come sappiamo era diviso in due parti: coloro, che per un qualsiasi motivo venivano racchiusi in così breve spazio, attraverso il foro circolare che è nel mezzo, vedevano il carcere inferiore, udivano le grida e i lamenti di quanti venivano dal carnefice tormentati e messi a morte e durante la notte venivano risvegliati dallo strepito della cateratta di ferro che chiudeva il foro stesso allorchè esso era schiuso o per qualche nuovo reo o per qualche esecuzione capitale.
Preziosa è per l'impressionante pittura la descrizione che ci ha lasciato un antico retore, Calpurnio Flacco: «vedo il carcere pubblico, costruito con grossi massi, che accoglie dagli angusti fori un tenue sentore di luce: quelli che sono in esso gettati scorgono il carcere Tulliano: e talvolta mentre giacciono, li sveglia lo stridore della ferrata imposta: ne rimangono esanimi; e mentre scorgono l'altrui supplizio, apprendono il supplizio proprio. Risuonano le battiture, il cibo ai ricusanti è fatto inghiottire dalla sporca mano del carnefice; siede il custode di inesorabile petto, che mentre una madre piange, tiene gli occhi asciutti. Il sudiciume esaspera i loro corpi, le catene gravano le loro mani ».
Dopo questo errabondo affannare, nessuna meraviglia se ci chiedevamo sorpresi quale fosse stata la fine di Zenobia.
Più tardi quando a mano il ricordo delle grandezze pagane andò impallidendo (nel quarto secolo il Tulliano era tuttavia prigione di stato ), il carcere da cui tanti umani corpi erano usciti esanimi portando le cruenti stigmate dei tormenti, quel carcere orrendo di cui scolpisce sinteticamente il carattere Giovenale
divenne luogo di raccolta pietà, di sacre memorie, di mistica solitudine.
E ancora noi scendiamo a rimirare quelle pareti, a caleare quelle pietre non per risentire l'alito mortale del luogo, non per riprovare i brividi e gli spasimi di tante agonie, ma per chinarci riverenti avanti al miracolo di quella dolce luce che seppe penetrare anche qui dentro, di quella parola charitas onde la fede di Cristo mitigò pei secoli i cuori umani miseramente avidi di sangue fraterno.