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ERMANNO PONTI
PASSEGGIATE PER ROMA IMPERIALE
(Vol. I)
 
Vol I. cap. II
PER LE "GEMONIE"
al NERO ABISSO del "TULLIANO"
 

Ma quale fu mai la fine di Zenobia? Abbiamo visto la sua bruna e maliosa figura trasvolare tra gli ori e i lampeggianti acciari del trionfo; è giusto rivolgere a noi stessi una simile domanda.

Narra ancora l'antico storico: «Aureliano le lasciò la vita. Si riferisce che assegnatole un podere in quel di Tivoli, podere che per più tempo portò il nome di Zenobia non lungi dalla villa di Adriano e dal luogo che si chiama Conca, qui essa vivesse insieme coi figli acconciatasi agli usi delle matrone romane ». Così dalle vaste e frementi ali della guerra essa discende e tramonta tra le chete dolcezze della vita famigliare. . . Nè questo senza nostro intimo e rasserenante sollievo. Non possiamo infatti dimenticare che alle falde del Campidoglio, a pochi passi dalla via dei trionfi sotto l'antica Arce, si apriva il nero gorgo del Tulliano dove trovavano orrenda morte non solo i rei, ma anche i più illustri prigionieri di guerra.

Più che una truce abitudine romana, era questo un principio legalmente ammesso nell' antichità: il capo di un esercito, se cadeva nelle mani del suo avversario, era messo a morte come un qualsiasi colpevole. La storia greca ci ripete il tragico caso dei due comandanti ateniesi Demostene e Nicia messi a morte in Siracusa; Cartagine ci addita il crudele fato di Attilio Regolo; Roma una lunga serie di re e di condottieri. Essi adornavano il corteo trionfale precedendo, incatenati, il cocchio del duce vittorioso. Lentamente per la via Trionfale e la via Sacra tra i canti licenziosi dei soldati e i frenetici applausi del popolo si giungeva al punto dove con uno stretto gomito cominciava il Clivo Capitolino. Qui il corteo improvvisamente sostava. A destra, nel fondo apparivano le tetre mura del carcere. I littori si avanzavano, staccavano dal carro i prigionieri e per una breve porta li immettevano nel Tulliano.

Il momento era di densa drammaticità. Tra tanta luce di gloria, tra tanto clamore di festa, tra tanto corrusco balenìo di armi, i prigionieri tremanti e smarriti rivolgevano un ultimo disperato sguardo all'aria, alla luce, alla vita. Poi le tenebre. L'umidore nauseante del carcere li stringeva alla gola, ottundeva gli orecchi, soffocava la vista. Oltre le grevi mura percepivano ancora, come in sogno, passare simile a un'immensa fiumana l'incomposto urlìo della folla. Sospinti tra il rosso fumigare delle fiaccole in una camera sotterranea dalle pareti fasciate di pesanti massi di tufo, i miseri erano fatti avanzare fin nel mezzo dove si apriva un oscuro foro circolare. Poi a uno a uno, mediante funi, erano calati nel basso e subito afferrati dal percussor...

Una sorte singolarmente benevola ci ha conservato pressochè intatto il luogo di così crudeli ricordi. Noi scendiamo in esso tremando. Il Tulliano, unica prigione di Roma antica, sorgeva proprio all'estremità del Foro, sotto l'Arce. Anzi esso risultava costruito sulla vetusta cisterna della rocca capitolina, come lo prova la parola stessa derivante da tullus sorgente. Anche in tempi più tardi un limaccioso ruscello andava di qui a gettarsi nella Cloaca massima.

Nei tempi più remoti il luogo era occupato pure da cave di pietra dette Lautumiae; il carcere però è rivestito con muri di tufo caratteristici delle opere costruite in Roma prima di Servio Tullio. Nel suo complesso, quale ancora si conserva, il carcere è quello che nell'anno 775 di Roma, 22 dell'era volgare, fu restaurato per opera dei consoli Caio Vibio Rufino e Marco Cocceio Nerva. Lo sappiamo dalla iscrizione a grandi caratteri che sovrasta la fonte d'accesso delle prigioni

C. VIBTVS. C. F. RVFINVS. M. COCCEIVS. NERVA. EX. S. C.
La porta attuale del carcere e l'accesso sono dunque gli stessi dell'antico tempo, cosicché ci è dato riprovare tutta l'efficacia della breve, ma terribile descrizione che ne fa Sallustio: «nel carcere vi è un luogo che si chiama Tulliano circa dodici piedi sotterra profondo. In esso, per un lieve pendìo si scende a mano manca. Le pareti dattorno, d'ogni parte, fortemente lo chiudono e sopra è la volta congiunta di grosse pietre, ma per l'incuria, le tenebre, il fetore, l'aspetto ne è repugnante e orribile ».
In genere non entrava in questo carcere - essendo il concetto di carcere come pena quasi sconosciuto agli antichi - altro che chi attendeva il giudizio o chi era già condannato a morte. E i più venivano spenti in questo stesso luogo: «dopo la tortura - ci dice Servio - erano mandati nel Tulliano per l'estremo supplizio ad ultimum supplicium mittebantur». I miseri corpi straziati dal carnefice venivano quindi gettati alla pubblica vista sulle vicine Scale Gemonie che ritraevano, secondo gli antichi, questo lugubre nome dai gemiti di che risuonava il vicino carcere.
Spaventevole vista veniva così a offrirsi fino al Foro! Ben lo provano le parole di Valerio Massimo a proposito di Quinto Cepione: « e il corpo di lui lacerato dalle mani del tenebroso carnefice, abbandonato sulle Scale Gemonie, fu con grande orrore scorto dal Foro romano».
Così pure Tacito, fra i tanti, ci fa vedere « cavato dal carcere, col capo tagliato, il nudo corpo di Sabino, lo trascinarono per le Gemonie ».
E trascinavano i nudi relitti umani su cui si era sfogata quella sapiente crudeltà che gli antichi chiamavano giustizia: «dia l'ultimo respiro nel carcere e nelle tenebre; dipoi avanti al carcere nudo venga gettato ».
Dopo una così feroce esibizione che serviva a terrorizzare il popolo, i cadaveri erano mediante raffi tirati al Tevere «gettato nelle Gemonie e poi tratto via col raffio in Gemonias abiestus uncoque tractus».

Dolori e tragedie dunque! Imprecazioni, urla, inutili proteste, disperati richiami: il silenzio che oggi ravvolge il luogo non vale a placare gli efferati ricordi. Eppure ci distoglie per un amorevole senso di pietà, per un singolare contrasto, l'episodio - commovente nella sua umiltà - di un cane che seguì fin dove potè il suo padrone «nè dal carcere si riuscì a rimuoverlo nè ad allontanarlo dal corpo gettato sulle scale Gemonie».

***
Lungo e paurosamente attediante sarebbe il catalogo di quanti - pur dai brevissimi cenni degli antichi - sappiamo che qui incontrarono, fra atroci tormenti, l'ora suprema.
La lugubre lista potrebbe, forse, cominciare da quel Pleminio che, come narra Livio, nell' anno 194 a.C. «fu calato nel carcere inferiore e quivi ucciso ».
Pleminio era reo di gravi delitti commessi contro gli dei e contro gli uomini e inoltre «aveva apprestato uomini che in più luoghi della città simultaneamente appiccassero incendi di guisa che, mentre la popolazione era conturbata dal notturno clamore, fosse possibile - ai congiurati - forzare la porta del carcere. Tale cosa fu scoperta per delazione di chi ne era consapevole e fu riferito al senato». Pleminio venne allora immediatamente soppresso !
Ma ecco ombre regali. Premettiamo però che non furono giustiziati nel carcere nè Siface re dei Numidi che adornò il trionfo di Scipione Africano, nè Perseo re di Macedonia agognato ornamento in quello di Paolo Emilio, nè Bituito re degli Arverni.
Essi furono lasciati nel carcere per il solo tempo che durò la pompa trionfale e la celebrazione del sacrificio sull' alto del Campidoglio. Poi furono inviati in prigione relativamente mite a Carseoli e ad Alba città fortificate.
Ma queste furono eccezioni, nobili eccezioni, dovute all'altera generosità dei vincitori.
 
Ben altra fu la sorte che incontrò nel disfacente tenebrore del Tulliano uno dei personaggi più violenti e singolari dell'evo antico: il re Giugurta. L'animoso e fosco Numida, che divorato da insaziabile brama di potere aveva spodestato è ucciso i suoi cugini Iempsale e Aderbale - a lui affidati e raccomandati sul letto di morte dal re Micipsa - che non pago di questo, per lunghi anni, aveva con l'oro, la corruzione, l' audace prontezza resistito alle armi romane, qui venne rinchiuso perchè incontrasse la morte dopo che aveva preceduto avvinto di catene, sotto l' avido e pungente sguardo dei romani, il carro trionfale di Mario.
Plutarco ci ha lasciato laconici e lugubri cenni della sua fine: «dopo il trionfo, mentre veniva gettato nella prigione, alcuni dei carcerieri con violenza gli strapparono il vestito; altri poi, mentre facevano a gara per togliergli gli orecchini, gli lacerarono un orecchio. Calato poi nudo nel baratro, tremante e pieno di ribrezzo «quanto è freddo, disse, o Quiriti, il vostro bagno».
Sei giorni rimase qui a lottare con la fame e, fino all'ultima ora sostenuto dal desiderio della vita, chiuse la vita con una pena degna delle sue crudeltà ».

Da queste scarne linee seppe con sommo magistero d'arte trarre ispirazione Giovanni Pascoli per il suo carme latino Iugurtha, nel quale rappresentò con compiuta efficacia tutta la torbida e feroce agonia del re numida.

tum tenebrae plenae regem videre silentes: rex oculos circum nequiquam volvebat apertos. . .

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Mutiam dolore ! Queste mura furono mute spettatrici d'uno dei più clamorosi drammi della vita politica di Roma: il supplizio dei complici di Catilina.
Cicerone, il cui nome è indissolubilmente legato alla repressione della famosa congiura, con la sua eloquenza e valendosi dello sgomento che regnava nell' animo di tutti, forzò il senato - nonostante la ragionata orazione di Cesare - a decretare la sera del 5 dicembre del 64 a. C. l'immediata morte dei congiurati già arrestati laddove Catilina dopo la violenta invettiva del console si era allontanato da Roma.
La notte stessa Lentulo, Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario vennero rilevati dalle case private dove erano tenuti in custodia - altra prova che il carcer non sempre serviva come prigione preventiva - e condotti sotto la personale vigilanza del console e di un gran numero di magistrati e di soldati nel Tulliano.
Ma lasciamo qui la parola a Sallustio che così scolpisce la scena: « assentito che ebbe il senato alla sentenza di Catone, il console giudicò necessario di antivenire nella prossima notte ogni novità col supplizio dei rei. Fatta perciò apprestare l'esecuzione dai triumviri capitali e disposte le forze, conduce egli stesso Lentulo in carcere, e vi fa gli altri condur dai pretori.
Lentulo là entro fu calato nel Tulliano e gli esecutori delle sentenze capitali, secondo che era stato loro comandato, con un laccio gli spezzarono la gola. Così quel patrizio discendente dalla nobilissima gente dei Corneli, che aveva tenuto in Roma la carica di console, trovò una fine degna dei suoi costumi e delle sue imprese. Per Cetego, Statilio, Gabinio, Cepario nello stesso modo si eseguì il supplizio.» Cicerone assistè allà terrificante scena che si svolse tra le fosche muraglie al fumigante e rossastro baluginar delle torcie.

Immensa folla attendeva fuori del carcere e quando il console riapparve essa ondeggiò tumultuante e oppressa. Allora rispondendo alla muta e angosciosa domanda, Cicerone nel repentino e grave silenzio non pronunciò che una parola: « han vissuto ! vixerunt » ! Le urla incomposte di gaudio, le ebbrezze partigiane, il clamore che segui questa parola, il trionfale ritorno fino alla casa sul Palatino dovevano tornare più volte in mente a Marco Tullio quando pochi anni dopo per tali esecuzioni ritenute arbitrarie e illegali, egli dovè, per le mene di Clodio, andare in esilio.

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Non passò molto tempo e le tragiche porte del Tulliano si aprivano per inghiottire nel nero baratro un autentico eroe: Vercingetorige re degli Arverni, il fiero oppositore di Cesare, il capo dell'insurrezione gallica. Stretto da formidabile assedio in Alesia, dopo memorabili prove di coraggio e inauditi sacrifici egli dovè capitolare. Il comandante romano si assise quel giorno su un alto poggio e dalla città stremata uscì il vinto re che a cavallo fece tre volte il giro del tumulo, quindi scese e presentò le sue armi ai piedi di Cesare. Fu incatenato e portato a Roma: il giorno del trionfo di Cesare fu spento nel carcere. Anche un altro re d'un altro popolo sottomesso a fatica doveva circa un secolo più tardi incontrare la stessa fine nelle stesse circostanze; Simone, figlio di Giosa, capo degli Ebrei insorti contro il dominio romano. Tito lo portò prigioniero a Roma e con sè l'addusse in quella pompa trionfale che ancora palpita nel marmo dei bassorilievi famosi dell' arco.

Con questo siamo giunti all' epoca imperiale. Anche qui nei fieri contrasti e nelle gare ambiziose il Tulliano rappresentò spesso l' ultima scena. Quanti audaci liberti, quanti cortigiani che Roma aveva così spesso ammirato e applaudito, ebbero il corpo trafitto rotolato giù per le Gemonie!

Il più celebre di questi fu, innegabilmente, Seiano, l'onnipotente ministro di Tiberio. Divenuto praefectus praetorio, riunì le coorti in un sol campo sul Viminale, convinse l'imperatore a lasciar Roma per Capri, e attese con fredda violenza e implacabile astuzia ad aprirsi la via verso il trono. Indusse Livia a propinare il veleno al marito Druso, riuscì a rovinare Agrippina e i suoi figli . . . Ancora un poco e sarebbe, forse, riuscito nel suo criminoso disegno. Ma il sospettoso Tiberio, informato di tutto e convinto finalmente della reità del suo ministro decise di procedere contro di lui. Dapprima usò cauta lentezza e blande perfidie. Poi fulmineo giunse il colpo di scena. In pieno senato Seiano fu arrestato da Sertorio Macrone e dopo sommario giudizio inviato nel carcere e messo a morte. La stessa sorte toccò ai figli, agli amici e ai partigiani di lui. Somma piètà provocò il fato inumano dei due più teneri figli dell'empio ministro, il figlioletto che il suo male intendeva e la figliolina, si pura, che diceva: «che io ho fatto ? dove mi trascinate voi ?..» e la mente arretra dinanzi ad alcuni altri particolari...

***

Lacrime e sangue! Nella breve angustia di queste mura quante tragedie! Eppure esclamava Giovenale: «felici gli avi dei nostri avi, felici i secoli, quando sotto i re e sotto i tribuni vedevano Roma starsi contenta di un sol carcere » !

sub regibus atque tribunis viderunt uno contentam carcere Romam...

Il carcere, come sappiamo era diviso in due parti: coloro, che per un qualsiasi motivo venivano racchiusi in così breve spazio, attraverso il foro circolare che è nel mezzo, vedevano il carcere inferiore, udivano le grida e i lamenti di quanti venivano dal carnefice tormentati e messi a morte e durante la notte venivano risvegliati dallo strepito della cateratta di ferro che chiudeva il foro stesso allorchè esso era schiuso o per qualche nuovo reo o per qualche esecuzione capitale.

Preziosa è per l'impressionante pittura la descrizione che ci ha lasciato un antico retore, Calpurnio Flacco: «vedo il carcere pubblico, costruito con grossi massi, che accoglie dagli angusti fori un tenue sentore di luce: quelli che sono in esso gettati scorgono il carcere Tulliano: e talvolta mentre giacciono, li sveglia lo stridore della ferrata imposta: ne rimangono esanimi; e mentre scorgono l'altrui supplizio, apprendono il supplizio proprio. Risuonano le battiture, il cibo ai ricusanti è fatto inghiottire dalla sporca mano del carnefice; siede il custode di inesorabile petto, che mentre una madre piange, tiene gli occhi asciutti. Il sudiciume esaspera i loro corpi, le catene gravano le loro mani ».

***

Dopo questo errabondo affannare, nessuna meraviglia se ci chiedevamo sorpresi quale fosse stata la fine di Zenobia.

La fiera e mansueta donna passò tremando avanti all' orrendo carcere, ma le porte di esso non si dischiusero per lei.
Si erano già schiuse - secondo la stupenda tradizione - per un umile peregrinus, per uno straniero venuto da lontano, solo, armato della sua fede semplice, mite, austera in insanabile contrasto a tanto fasto e a tanta forza della superba città imperiale.
Portava chiuso nel suo cuore la parola dell' amore e della carità.
Era Simone, pescatore di Galilea che il biondo maestro aveva chiamato Cefa - Pietro - pietra angolare della Chiesa futura.
Gettato qui nel nero antro - come da venti secoli ci ripete la tradizione - sembra che con lui entri nel carcere un diffuso biancore di pace.
Ecco ! Egli giace qui coi polsi consunti dalle pesanti catene, coi piedi serrati tra i duri ceppi... Eppure questo non basta alla stolida brutalità dei carcerieri. Uno di essi di repente si avvicina al pensoso vegliardo e lo colpisce in viso con sì forte manrovescio, da mandarlo a battere con estrema violenza contro la ferrigna parete. Ma istantaneamente si ammollì la nera pietra conservando nitidamente impressa l'effigie di lui.
Meravigliati accorrono gli altri carcerieri e Pietro allora parla, rievoca la dolce ammaliante figura del divino Maestro, piega a un' ignota mansuetudine quei cuori induriti, li avvince nella fiamma d'una fede impensata e, alfine, da una fonte che misteriosamente ha preso a gorgogliare ai suoi piedi attinge a piene mani e irrora con acqua di rinascita le prone teste di Processo, di Martiniano, di numerosi altri compagni, già sacrati al sacrificio, già presi da una mistica sete di martirio. . .

Più tardi quando a mano il ricordo delle grandezze pagane andò impallidendo (nel quarto secolo il Tulliano era tuttavia prigione di stato ), il carcere da cui tanti umani corpi erano usciti esanimi portando le cruenti stigmate dei tormenti, quel carcere orrendo di cui scolpisce sinteticamente il carattere Giovenale

dabit in laqueum vestigia noster perfidus et nigri patietur carceris uncum

divenne luogo di raccolta pietà, di sacre memorie, di mistica solitudine.

E ancora noi scendiamo a rimirare quelle pareti, a caleare quelle pietre non per risentire l'alito mortale del luogo, non per riprovare i brividi e gli spasimi di tante agonie, ma per chinarci riverenti avanti al miracolo di quella dolce luce che seppe penetrare anche qui dentro, di quella parola charitas onde la fede di Cristo mitigò pei secoli i cuori umani miseramente avidi di sangue fraterno.


Roma, vita mia
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Ermanno Ponti
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