ERMANNO PONTI

Spiritaccio romano (Palazzo Giraud - Torlonia)

Pantheon e Leutari

Gatta e gatto

Affascinante mistero (Il baldacchino del Bernini)

Il ponte Egizio  (Villa Borghese)

GIRO DI ROMA

(articoli pubblicati da "IL Paese" - 1960)

 

Vecchia questione è se il palazzo Giraud, oggi Torlonia, in Borgo appartenga veramente, come opera architettonica, a Donato Bramante. Chi lo dà per certo, chi lo esclude in modo assoluto. Ma la fine eleganza delle sue linee e la grande somiglianza col palazzo della Cancelleria ne rendono assai dubbia l'attribuzione bramantesca.Fu costruito alla fine del Quattrocento o nei primissimi anni del secolo successivo per iniziativa di una delle più singolari e più discusse figure del tempo, il cardinale Castellesi passato alla storia col nome di Adriano da Corneto.

Caduto in disgrazia, gli furono confiscati i beni e il palazzo diventò proprietà dell'anglico re Enrico Vlll. Più tardi passò in diverse mani fino a che nel 1720 lo comprò per 14 mila scudi il banchiere e conte Pietro Giraud. Suo padre, ricco marsigliese, si era stabilito a Roma fin dagli ultimi del Seicento e con lui la famiglia si romanizzò completamente tanto da contrarre il vezzo che il cognome Giraud si pronunciasse all'italiana col dittongo sciolto e non più Girò alla maniera originaria francese.

Pietro ebbe parecchi figli. Uno di essi fu padre di Giovanni Giraud, il ben noto commediografo romano, l'unico che, con unanime giudizio della critica, sia stato giudicato degno continuatore del Goldoni soprattutto per il suo capolavoro "L'aio nell'imbarazzo".

Giovanni Giraud nacque nel grandioso palazzo di Borgo (che oggi prospetta la via della Conciliazione essendo andata distrutta la piccola ma armoniosa e pittoresca piazza Scossacavalli ). Giovanissimo esordì nel teatro producendo nel breve giro di dieci anni, tra il 1798 e il 1808, una serie di commedie, alcune delle quali, come quella di "Don Desiderio disperato per eccesso di buon cuore", ebbero un incontrastato successo .

"Nel frattempo era stato in Francia, « e da Parigi - scrive Tommaso Gnoli nella sua eccellente monografia "Le satire di Giovanni Giraud" - passò a Londra invitatovi da qual governo per scrivere la Cantata pel gran teatro, in occasione delle feste ai sovrani alleati per il trattato di pace concluso a Parigi.» Durante i Cento Giorni era di nuovo in Francia, e a Lione conobbe di persona l'imperatore. Si racconta a questo proposito un chioso aneddoto.

Presentato al Bonaparte, questi si congratulò con lui ripetendo il suo nome con pronuncia francese Girò, quasi compiacendosi come d'una pecorella smarrita tornata all'ovile.

- Gira-ud, oppose subito il poeta:

- Sta bene, dunque Girò, insiste Napoleone.

- Gira-ud, corresse monotonamente il conte, cui l'imperatore volse alfine le spalle .

E lo Gnoli, come corollario, aggiunge che Giraud aveva in uggia Roma, ma si sentiva romano.

 

Raffaello sentì dolore e, probabilmente, rimorso alla scomparsa di colei che gli era stata promessa e che indarno aveva atteso d'essere condotta all'altare.

Se ne ha il sospetto leggendo l'iscrizione al Pantheon: « a Maria Bibbiena sposa di lui, che con la morte prevenne il lieto imeneo e prima delle faci nuziali fu portata via, ancor fanciulla... ».

Nel fare la cappella, per la cui costruzione Raffaello aveva destinato 1500 ducati, gli esecutori testamentari Baldassarre Turini e G. B. Branconi in base, senza dubbio, a precise disposizioni del morente, vi aggiunsero un ricordo della nipotina del cardinal Dovizi da Bibbiena, sponsa eius "sua fidanzata", senza nemmeno curarsi di collocare nella nicchia - rimasta vuota - un ritratto di lei sopra l'iscrizione che si vuole, come l'altra per Raffaello, sia stata dettata dal Bembo.

Tutto questo prova che Maria Bibbiena non fu sepolta al Pantheon, come più d'uno ha supposto. Né poteva esserlo, giacché abitando in via dei Leutari col padre (quell'Antonio ricordato con acri versi dal Berni), a pochi passi da san Lorenzo in Damaso sua parrocchia; di certo, in tal chiesa trovò l'estremo riposo .

La casa dei Dovizi ai Leutari non esiste più giacché venne demolita pezzo a pezzo per l'apertura del Corso Vittorio Emanuele. Ne restano esatte descrizioni e sappiamo che nei primi decenni del Settecento ebbe la singolare ventura di accogliere fra le sue mura un vero e proprio teatro.

Francesco Lorenzini « custode d'Arcadia » cominciò a far recitare in latino le commedie di Plauto al palazzo Stoppani (o Vidoni) a s. Andrea della Valle, ma poi - scrive l'abate Cancellieri in una nota del suo celebre libro « Il mercato e il lago di piazza Navona » - per proseguire queste rappresentazioni in luogo a lui più comodo, aprì un ben ideato, benché piccolo teatro nella sua stessa abitazione posta al vicolo de' Leutari, al n. 11, che appartenne al cardinal Dovizi da Bibbiena, «come apparisce ancora dal suo stemma ». Di questo teatro s'incontra un'interessante memoria nel minuscolo (ed unico!) giornale che Roma possedeva in quel tempo, il « Cracas » del 18 febbraio 1736.

«Nel carnevale - così si inizia il resoconto dell'autorevole periodico - si è fatta la recita degli « Adelfi » di Terenzio nel Teatro Latino vicino a s. Lorenzo in Damaso, dagli accademici latini, alla quale è stato continuo il concorso de' primari personaggi... » e cioè cardinali, principi e ambasciatori. Segue uno nota mondana quanto mai interessante: « Il signor Marchese Matteo Sacchetti, che è intervenuto a tutte le dodici recite, nell'ultima sera fece la solita generosa cena, come ha fatto fin dal principio di questo istituto ». Né basta ! Nel carnevale del 1739 il gran Custode d'Arcadia a fece godere al real principe Federico Augusto di Sassonia la recita dei Captivi di Plauto eseguita da scelto drappello di giovani. Egli si studiò di riceverlo con i più grandi onori, avendolo fatto scortare da un picchetto di soldati «..corsi dalla piazza di Pasquino per tutto il vicolo de' Leutari illuminato a fiaccole e salutare al suo arrivo da una banda di stromenti a fiato, collocata presso al portone ».

Quante memorie racchiude Roma anche in una viuzza semibuia e oggi dimezzata! Il dramma angoscioso d'una giovane donna, il riflesso della porpora d'un potente cardinale, ministro di Leone X, dotte recite in latino, cene patrizie, e, ultima pennellata, il figlio di re Augusto III di Sassonia con scorte d'onore, tra luminarie e musiche !

 

(Il baldacchino del Bernini)

Il succo del discorso fu questo: «siete fortunato, caro Maestro, di vivere mentre è papa Urbano VIII: ma più grande d'assai è la fortuna di Urbano VIII d'avere nel suo pontificato un artista come Bernini». Tali, secondo quanto si narra, le parole di Maffeo Barberini appena ascese al soglio papale e prese il nome di Urbano Vlll. Né fu vana promessa. Al giovane non ancora trentenne fu affidato l'arduo compito d'innalzare in mezzo alla crociera dei rinnovato san Pietro un baldacchino che, senza impedire la vista del fondo del tempio, non sfigurasse nei confronti di quel miracolo d'architettura che è la cupola michelangeolesca. Era un'impresa da far tremare le vene e i polsi.

Con la gagliarda valentia di un titano, Bernini uscì vittorioso dall'ardua prova, ma nessuno, di certo, potrà mai svelarci quanto intense furono le sue trepidazioni, quanto smisurata l'angoscia sotto l'immane responsabilità, nel tormento della creazione ! Le quattro colossali colonne tortili, il cupo peso del bronzo e il fulgore dell'oro, i marmorei pilastri su cui poggiano le colonne, il sontuoso cornicione coronato dal globo e dalla croce ebbero il pregio di avviluppare di suggestionante bellezza l'altare papale e di rendere più venerando il sito della tomba dell'Apostolo, intorno alla quale giorno e notte - mistico vivaio di luci - ardono cento lampade. L'opera sembra uscita di getto, palpitante di vita, esuberante di ornati, carica perfino di piccole e grandi stranezze e capricci.

Chi non conosce le otto grandi fasce esterne delle basi di marmo? Sono stemmi papali, fregiati del motivo araldico di Casa Barberini: le tre api. Ma ogni stemma porta al sommo una minuscola figura delicatamente scolpita. Sette di queste presentano un viso di donna dall'intensa espressione di dolore, espressione che muta di stemma in stemma. Tutti lo sanno ! E' la donna nei momento più sublime e doloroso della maternità, nel travaglio di parto. Ce ne dà l'eloquente riprova l'ottavo stemma dove sorride un florido puttino. Da secoli le più strane fantasie si sono sbrigliate intorno al mistero di queste otto figure. Si è parlato di intrighi, di onte, di arcane vendette... Ci si sono ricamati intorno le più assurde storie, e perfino torbidi romanzi. Tutto inutile. Il marmo ha conservato il suo mistero.

Basta però riflettere a un piccoli particolare per sgomberare il campo da ogni perniciosa fantasia. Se ci fosse stato un linguaggio segreto o una qualunque idea di maligna vendetta, i contemporanei del Bernini non avrebbero mancato di menarne scalpore. Il completo silenzio a tale riguardo sta a indicare in modo chiarissimo che fu solamente e semplicemente un capriccio d'artista, una geniale bizzarria. Forse però è lecito vedere in quelle piccole sculture un significato recondito. Non poté per caso il Bernini ispirarsi a certe umane e divine parole dell'evangelista Giovanni? Eccole ! «La donna, quando partorisce, è in doglia, perché è giunta la sua ora. Quando poi ha dato alla luce il bambino, non si rammenta più dell'angoscia per l'allegrezza, ch'è nato al mondo un uomo ».

Il Bernini non alluse forse alle veglie dolorose vissute per creare il capolavoro, e alla gioia di vederlo realizzato?

 

A lettere d'oro, sui bianchi propilei della villa sta una lunga iscrizione in latino: « il principe Camillo Borghese l'anno 1830 ampliò la sua villa suburbana e la rese più adorna ». La scritta continua anche nel fregio interno, enumerando quanto vi fu aggiunto: « archi, fontane, statue, propilei e il ponte ». Come e a quale scopo un ponte poteva figurare nel bel mezzo della villa?

Dice un saggio proverbio « Roma non fu fatta in un giorno ». Così pure la Villa Borghese da un primitivo nucleo, posseduto dai nipoti di Paolo V, andò a mano a mano accrescendosi mediante il graduale assorbimento di proprietà viciniori o confinanti, estendendosi preferibilmente verso porta Salaria (ossia verso le attuali via Po e Corso d'Italia) e porta Pinciana. Camillo Borghese, che è passato alla storia soprattutto per il suo matrimonio, non eccessivamente felice, con la bellissima Paolina Bonaparte, trovò che la sua villa arrivava fino al Giardino del Lago. Fu lui a portarne i confini al piazzale Flaminio, avvalendoli dell'opera sapace di Luigi Canina, archeologo ed architetto illustre.

A questo proposito, è da ricordare che mentre, dottissimo quale era, il Canina pubblicava una dopo l'altra opere monumentali intorno alla topografia di Roma Antica, gli archeologi del tempo, suoi implacabili rivali, dicevano sogghignando «come archeologo, vale ben poco; in compenso è un bravo architetto ». Di rimando, gli architetti tra di loro sussurravano malignamente: «come architetto è men che mediocre; ma come archeologo è una cima ! ».

Fatto sta che nell'ampliamento della Villa Borghese, Luigi Canina die' prova di un gusto da raffinato esteta: sfruttando abilmente i dislivelli del terreno seppe creare mirabili scorci di verde e attraenti visuali, oggi in gran parte guastate dal depauperamento della pineta e dal fatto che i silenziosi ombrosi viali sono diventati la pista asfaltata sui cui si avvicendano le auto in frenetica corsa. Da principio, il geniale innovatore si trovò di fronte a un grave ostacolo: c'era una vecchia strada, una specie di rozzo sentiero che scendeva dalle alture dei Parioli e andava a sfociare di fronte al Muro Torto. Per quanto fosse una semplice strada campestre, quel viottolo, adusato soprattutto al transito dei carri che portavano gli ortaggi in città, non si poteva né colmare, né assorbire, né cancellare. Era il «Vicolo delle Tre Madonne », che come un lungo nastro metteva in rapida e diretta comunicazione l'intera zona dei Parioli con porta del Popolo. E la strada fu - per allora - conservata ! Il modesto sentiero ebbe partita vinta contro la villa patrizia.

In qualche vecchia pianta topografica se ne può ravvisare il preciso tracciato (oggi totalmente scomparso) fino al punto in cui, in profonda trincea, passava rasente il giardino del Lago. Da questo punto proseguiva allo scoperto frapponendosi tra la parte vecchia della villa e il nuovo acquisto fatto da Camillo Borghese. Appunto per creare una facile comunicazione tra le due parti della villa e, in certo modo, saldarle insieme, Luigi Canina disegnò ed estrasse, con geniale ritrovato il nobile e pittoresco Ponte Egizio, perfetta anticipazione d'uno scenario degno delle più artistiche rappresentazioni dell'Aida di Verdi.

E se guardate bene, potete facilmente rilevare come, oltre le grosse rossastre colonne, le fiancate del ponte siano ermeticamente murate. Con tale accorgimento l'artista impedi che chi transitava scorgesse il rustico viottolo... Le belle dame, però, che intessevano lunghi conversare al sole, nell'isoletta di Esculapio, nel cheto giardino del Lago, sentivano, senza sapere da dove provenisse, lo stridore dei carri della strada che passava lì sotto, a pochi metri di distanza, e udivano i lenti sonagli e le bubbole dei villerecci campani.

 

Invito il lettore a rilevare una piccola curiosità linguistica.

E' da premettere che parecchi animali, grandi o piccoli, la lontra, la lince, la stessa sanguinaria tigre ed altri, si configurano soltanto con un nome di genere femminile. Ebbene: per secoli interi, nell'italico idioma, in omaggio a tale vezzo, restò del tutto ignota la parola «gatto». L'amabile felino, in attesa di essere immortalato in quel divertente capolavoro che è il libro dell'ottocentista medico milanese Giovanni Rajberti, era conosciuto esclusivamente sotto lo specifico nome di gatta. Abbondano gli esempi a riguardo. C'è per primo Dante, che descrivendo a potenti colori la crudele zuffa tra i diavoli e il navarrino Ciàmpolo, esclama: tra male gatte era venuto il sorco ! Idem, Boccaccio (Decamerone, giornata nona, novella sesta) «avvenne che una gatta fece certe cose cadere, le quali la donna destatasi sentì: perché temendo non fosse altro, così al buio levatasi, ecc. ».

Che più? Ci sono vecchi proverbi e modi di dire tradizionali: « tanto va la gatta al lardo... », «gatta ci cova»; «avere una gatta a pelare »; «fare la gatta morta»; andare ( Dio ce ne scampi ! )«in gatta... buia ! ». Perfino il più diffuso dei giuochi infantili rammemora nella sua dizione l'antichissima origine: «giuocare a gatta cieca » ! In assai magra controprestazione, per non dire per una specie di amaro dileggio, il nome, al maschile, fa la sua comparsa in una frase tutt'altro che lusinghiera: «andarsene come un gatto frustato ». Dimostrata con ciò, la supremazia che nel passato ebbe la gatta sul gatto, non fa meraviglia se i romani, quando ebbero desiderio di intitolare una strada alla fida e domestica bestiola, non esitarono a chiamarla «Via della Gatta », senza che, riguardo al simulacro marmoreo, che sta in bilico sull'angolo di un palazzo, si possa sapere se si tratta di un'aculeata signora gatta o, viceversa, di un placido micio !

Benedetto Blasi nel suo pregevole Stradario Romano, che il caro e sventurato editore Formiggini pubblicò nel 1933, ci offre in proposito la seguente delucidazione: «La via deriva il nome da una gatta di marmo di grandezza naturale che si vede situata in un angolo del palazzo Grazioli». Nell'età di mezzo questa via corrispondeva alla strada dei "Portico" o "passaggio del palazzo d'Urbino ". Venne allargata dopo il 1870 dal Comune, che ebbe in compenso dal principe Doria - essendo prospiciente qui un lato del suo palazzo - la statua equestre di Vittorio Emanuele, che fu collocata al Pincio.

«La gatta, rinvenuta scavando qui presso, ove era il tempio d'Iside e Serapide, avendo il gatto, come ci rivelano i bassorilievi e i graffiti egizi, attributi quasi divini. Il gatto simboleggiava la libertà; e la gatta godeva del privilegio di essere rappresentata come la dea degli amori ».

Non so se queste affermazioni del Blasi siano del tutto esatte. Occorrerebbe rivolgersi agli specialisti di egittologia. Però è vezzosa l'idea che la dea degli amori possa essere simboleggiata sotto la forma d'una gatta, con le conseguenze di graffi, soffi e orchestre di laceranti urli che turbano e spezzano le cristalline notti invernali...

 


Roma, vita mia

 Editrice SOPI - Roma

Ermanno Ponti

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