ERMANNO PONTI
Il Banco di Santo Spirito
fondato da Paolo V con Breve del 13 dicembre 1605
Prima edizione 1941
Indice dell'opera

I - Finanze Romane

IX - Asprezze e amarezze

II- Paolo V fondatore del Banco

X- Benedetto XIV restauratore del Banco

III- Primi passi e prima sede

XI- Per il pubblico bene

IV - Carte d'affari e spese di gestione

XII - Settecento Romano

V - Il palazzo del Banco

XIII - Libertà, eguaglianza

VI - Mercanti e patrizi, crediti e cambi

XIV - Laboriosa rinascita

VII - Bilanci e sbilanci

XV - Tra il vecchio e il nuovo

VIII - Crisi di circolante

XVI - Nuovi orizzonti

Capitolo I
FINANZE ROMANE
 
Nel cuore della vecchia Roma, nel pittoresco rione di Ponte, una strada, rimasta prodigiosamente immutata, porta il nome di Via del Banco di Santo Spirito.

Paolo V Fondatore del Banco di S. Spirito

Anche oggi, dopo secoli di feconda attività, una filiale del Banco, fedele a una tradizione più che tre volte centenaria, occupa la sua antica sede, il bel palazzo di linee classicheggianti, che, in fondo alla strada, fa angolo tra la Via dei Banchi Nuovi e il moderno Corso Vittorio Emanuele.
La strada sufficientemente spaziosa e diritta, con ampie zone di luce, allinea sui fianchi una chiesa, bei palazzi, case del buon tempo antico, alcune fregiate da iscrizioni latine, altre ricche di frammenti marmorei.
Nello sfondo, in uno scenario d'incomparabile bellezza, si eleva e domina la mole di Castel S. Angelo a cui è di guida il ponte vetusto e glorioso, angusto e solenne, tra la doppia fila dei bianchi angeli che portano in trionfo gli emblemi della Passione.
Nel primo Rinascimento la contrada era conosciuta col nome di Canale di Ponte a motivo del Tevere che, non frenato da argini, fluendo libero fra le sponde, invadeva strade e viuzze appena appena aumentava il livello delle sue acque.
"Più tardi - scrive Pasquale Adinolfi - la strada appellata per molto tempo Canale di Ponte andò a perdere il nome e dai negozi del cambio di alcuni banchieri e mercanti, tolse quello di Banchi ".
Per tutto il Rinascimento la contrada di Banchi rimase il centro della vita romana.
Tra le case disegnate da Bramante, da Sangallo, da Peruzzi, leggiadramente colorite nel prospetto da Maturino da Firenze e da Polidoro da Caravaggio, nelle vie piene di colore e di chiasso, d'ora in ora, la vita spiegava tutta la sua grazia mutevole.
E che folla e che brio! Uomini d'arme, artisti e curiali, letterati e perdigiorno, merciai e cantastorie, si pigiavano e Si urtavano senza sosta.
 
E in mezzo a questa vita disordinata e pittoresca, alI'improvviso appariva, dominatore solitario e violento, il Tevere. Ben lo seppe il Cellini, che aveva aperto "una bottega bellissima in Banchi" e di lì a poco, nel novembre del 1530 "sopravvenne quella grandissima inondazione, la quale traboccò d'acqua tutta Roma ".
L'artista, che attendeva in quel mentre ad alcuni lavori per Clemente VII, così dipinge il pauroso frangente: "standomi a veder quel che tal cosa faceva, essendo di già il giorno logoro (suonava ventidua ora) e l'acque oltre modo crescevano... la mia casa e bottega il dinanzi era in Banchi e il di dietro saliva parecchie braccia, perché rispondeva in verso Monte Giordano... pensando prima alla salute della vita mia, di poi all'onore, mi misi tutte quelle gioie addosso... ".
Dalla sua casa Benvenuto poteva scorgere la bruna massa del Castello, dove tre anni prima, all'epoca del Sacco, aveva compiuto tante bravure, e dove tra qualche tempo avrebbe passato inenarrabili angosce tra il terrore della morte e i preparativi della drammatica fuga.
 
Il quartiere del Rinascimento era la dimora preferita dei banchieri e di ogni sorta di notabilità, uditori, prelati, impiegati di Curia, artisti, donne famose - come Fiammetta ancora ricordata dal nome di una piazza - e letterati del tipo di quel Pietro Aretino, sfrontato avventuriero, che però un brutto giorno il pugnale di Achille della Volta e i crudi versi del Berni indussero a convolare verso i placidi recessi della laguna veneta.
In Banchi visse, in cortigianeschi ozi, Annibal Caro in quel palazzo Gaddi che nella serena armonia delle linee conserva l'impronta geniale del Sansovino, e dimorando presso i Gaddi l'elegante traduttor di Virgilio compose quell'intemperante Apologia degli Accademici di Banchi in cui sfogò in versi e in prose la sua bile contro Lodovico Castelvetro per le severe censure mosse alla canzone: venite all'ombra dei bei gigli d'oro.
Ma in Banchi una visione di grazia sovrasta ogni altra: la figura di Raffaello che di qui muoveva al Vaticano seguito come un trionfatore da una folla di scolari, mentre, come canta la tradizione, dalla adorna casa dei Sassi in Parione scendeva a lui, languido e ardente, lo sguardo della Fornarina.

In verità, il nome di Banchi - dato alla via e alla contrada - anche a un esame superficiale appare più che giustificato.
Fin dall'inizio del Quattrocento, i banchieri ne fecero il loro quartier generale.
Tra i primi a prendervi dimora furono gli Alberti, i Manzi, gli Spini, tutti di Firenze e i Chiarenti di Pistoia, poi, da un decennio all'altro, il numero crebbe tumultuosamente.
Nel 1433 Mattia Palazzi degli Astalli " nobile mercante " ossia " banchiere ", abitava una casa a Ponte presso la chiesetta di S. Salvatore degli Inversi; poco dopo gli Ubaldini appaiono vicino a S. Celso e i Pazzi presso il ponte Adriano in uno stabile che l'11 aprile 1481 fu devastato da un incendio.
Intorno al 1490 Carlo de' Martelli risiedeva " incontro al vicolo del Leoncino o del Grancio presso i Ricasoli " mentre al Canale di Ponte avevano stanza gli Spannocchi mercanti senesi, che per oltre mezzo secolo gestirono la a depositeria pontificia ". Ai primi del Cinquecento la casa bancaria cadde in crisi e fu rilevata dai Chigi pur essi senesi. Il grande Agostino ebbe il suo ufficio in Banchi, nel sito che per lunghissimo tempo fu detto il cortile dei Ghisi.
Gli Strozzi prima ebbero in Banchi una casa di spettanza della Basilica Vaticana; più tardi divennero proprietari del palazzo dei Gaddi, anche essi banchieri.
Gli Altoviti si fabbricarono un grosso palazzo allo sbocco di Canale di Ponte e il celebre Bindo lo riempì di delicate opere d'arte.
E sempre senza uscire dalla contrada, troviamo a Ponte, intorno al 1490, un Francesco Ponzi, banchiere fiorentino; un Pietro Ricasoli che ottiene dall'Archiospedale di Santo Spirito per cinque ducati l'anno e " fino alla terza generazione " uno stabile retro Banchos; e così, via via, i Ridolfi, i Della Casa, i Tornabuoni, i Fugger potenti e ricchi banchieri tedeschi dimoranti nella via del Consolato, mentre accanto al palazzo Bonadies stava il banchiere Polo De Calvis che nel febbraio del 1495 ebbe la direzione della zecca. Più tardi, l'azienda bancaria restò affidata a una donna, Paola De Calvis. Ma di lì a non molto tempo, la brava signora si ritirò dalla mercatura, collocò decorosamente la propria figlia e fondò in via dei Cappellari una a casa santa " specie di monastero dove chiudeva in pace i suoi giorni.
 
In questo mondo turbinoso degli affari, non mancavano episodi clamorosi, del resto notissimi, come quello di Agostino Chigi a cui alcuni mercanti si presentarono all'improvviso e di comune intesa chiedendo il ritiro di forti somme depositate con l'obliqua mira di porre il banco in aspre distrette. Il magnifico Agostino stette a sentirli, poi domandò se preferivano essere pagati in oro o in argento, a loro piacere, e per qualsiasi somma, lì su due piedi... Ugualmente quando morì il cardinal Melchiorre de Cupis che aveva nome di danaroso, non si trovò presso di lui nè oro nè argento, ma una semplice striscia di carta lunga un dito che il porporato custodiva nel risvolto d'una manica. Giulio II capì subito che si trattava di una " lettera di cambio " e chiamò l'agente dei Fugger giacchè la scrittura appariva indecifrabile. L'institor esaminò il documento e con calma dichiarò "...questo qui vale trecentomila fiorini " e l'enorme somma fu versata nel giro di ventiquattro ore.
Come si può spiegare tanta folla di banchieri nella Roma del Rinascimento?
E' presto detto. Tornata definitivamente a Roma la sede papale e chiuso per sempre l'agitato periodo dello Scisma, a partire dal 1417, anno in cui fu eletto a Costanza Martino V, Roma ebbe un rapido risveglio economico. La tranquillità, l'ordine e ancor meglio il novello decoro del Pontificato romano concorsero a dare grande successo al giubileo del 1450, che - secondo uno scrittore - "...rovesciò tanto oro a Roma che il resto d'Italia ne rimase quasi sprovvisto ". Del resto il fatto non era nuovo e i tributi della fede per tutto il medioevo avevano largamente provveduto ai molteplici bisogni della Curia Romana.
Dalle più remote regioni dell'Orbe cattolico il denaro delle collette e delle decime veniva avviato verso Roma pel tramite di appositi organi e di persone addette alla bisogna.
Organo centrale era la Camera Apostolica che disponeva di agenti, di tesorieri, di depositarii, mentre a Roma un depositario generale era incaricato di riunire nelle sue mani tali proventi. Le funzioni bancarie non rimanevano estranee al sistema delle finanze romane, anzi il depositario generale, di solito, non era altri che il rappresentante di qualche grande banca fiorentina, come quelle dei Medici, dei Bardi, dei Pazzi, degli Spannocchi e da ultimo, dei Chigi e degli Altoviti.
Ogni mese, il banchiere depositario presentava lo stato contabile, sottoponendolo al controllo di due chierici della Camera Apostolica, la quale, in certo qual modo, funzionava da Corte dei Conti.

 
 
Il lavoro dei banchieri era ingente. Ne può dare una idea il collector generalis della Francia,- il paese più produttivo - che nel solo anno 1469 riunì a Lione e fece pervenire a Roma 19 mila fiorini a mezzo della Banca Pazzi e altri 16 mila a mezzo della Banca Medici et sociorum.
Alle rendite "spirituali" si univano, in linea più modesta, le rendite "temporali" dello Stato Pontificio: le dogane, i pedaggi, le tasse sul bestiame e sul sale; il focatico o tassa di famiglia; i censi di alcune città, la tassa sugli ebrei.
Un cespite tutt'altro che trascurabile per il fisco, a partire dal 1462, fu il prodotto delle miniere di allume di Tolfa, miniere che in seguito vennero date in appalto agli Spannocchi e ai Chigi.
Sarebbe interessante precisare il bilancio della Santa Sede, ma i dati che possediamo sono insufficienti e confusi. E' certo però che le uscite sorpassavano assai spesso i proventi e che la Camera Apostolica più d'una volta venne a trovarsi in seri imbarazzi anche per il radicato malvezzo di non tener mai fondi liquidi di una certa entità. Il tesoro papale era composto, in prevalenza, di oggetti preziosi.
Paolo II, venendo a morte nel luglio 1471, lasciò gemme e oro per oltre un milione di ducati, perle per un valore di trecentomila, mentre il denaro contante non superava i settemila ducati.
In caso di urgenza, oro e gemme si vendevano e gli oggetti di valore si portavano a impegnare presso i banchieri. L'uso era così frequente che non meravigliava e non scandalizzava nessuno per il semplice fatto che i gioielli, compresi quelli che ornavano il triregno papale, erano considerati da tutti come valori suscettibili di pronto realizzo e di immediata mutazione in denaro nè più nè meno che se fossero stati somme liquide depositate in banca.
L'uso, o abuso, di ricorrere ai pegni toccò il vertice ai bei giorni di Leone X. "Si impegnarono -conferma il Pastor - i tappeti del palazzo, il vasellame d'argento, le gemme della tiara e fino le preziose statue della Cappella figuranti gli Apostoli ".
Il Papa mediceo aveva sempre bisogno di denaro. Durante il suo fastoso pontificato pare che abbia speso quattro milioni e mezzo di ducati, lasciandone altri quattrocentomila di debito.
La penuria di cassa era tale che la Camera non era in grado di far fronte alle più modeste spese e doveva chiedere dilazioni e, quel che è peggio, per pagare un debito, assai spesso ne procreava un altro. Si era spontaneamente formata una categoria di persone che era pronta a dare a fido alla Camera Apostolica somme piu o meno alte, ma che si aggiravano, in genere sui due o tre mila fiorini, sempre contro pegno di oggetti preziosi.
Era un sistema incomodo e di natura assai primitiva, al quale, in un secondo momento, si cercò di trovare un diversivo dando in pegno, non più un oggetto di valore, ma il provento di una tassa, la dogana di un genere di largo consumo, come il vino, i censi, i dazi, le stesse rendite della Camera.
Ciò non si verificò in modo continuo: Alessandro VI prescrisse severe norme ai tesorieri per la salvaguardia delle rendite della Chiesa; Giulio II fu un rigido amministratore tanto da compiere grandi campagne guerresche senza contrarre debiti e senza gravare i sudditi di sovraimposte. Anzi lasciò 700 mila ducati.

 Il disavanzo si iniziò, crebbe e dilagò durante il fastoso e dispendioso regno di Leone, che, oltre a quanto si è detto, per sopperire alle sempre maggiori esigenze del bilancio, trovò una nuova risorsa con l'istituire i Militi di San Pietro, chiamati anche Cavalieri di San Pietro.
Era, in realtà, il primo tentativo di un prestito pubblico, abilmente nascosto sotto concessioni e privilegi.
I Militi venivano a costituire un ente morale, un collegio, composto di 401 membri, ognuno dei quali era tenuto a versare all'atto della nomina 1000 fiorini d'oro di Camera, somma alla quale era annesso un beneficio (ossia interesse annuo) del dieci per cento. Dei militi, alcuni dovevano essere a disposizione del Vice Camerario, altri incaricarsi della vendita del ricavato delle miniere di allume, altri impedire le frodi nei commerci, o rivedere i conti coi chierici e coi commissari della Camera.
Per il pagamento dei frutti, il Papa stanziò una somma adeguata che fece gravare su diciotto capi diversi di entrate. Il tutto fu regolato con la Bolla Sicut prudens del 13 marzo 1520.
Tale sistema rappresentò, in embrione, quanto ebbe di lì a poco larga applicazione, e che nella sua forma tipica, fu instaurato nel 1526 da Clemente VII cugino, e, in certo modo, quasi diretto successore di Leone X.
Clemente VII si ispirò a quello che da lungo tempo si praticava in Firenze, sua patria, dove era comune l'uso di creare, all'occorrenza, prestiti pubblici a base di azioni di rendita consolidata. Tali prestiti, nati con l'idea dell'apporto libero a tutti, secondo le disponibilità di ciascuno, avevano il tipico nome di " Monti ", e le azioni, l'altro non meno caratteristico di "luoghi ". In genere ogni luogo rappresentava un capitale nominale di cento scudi e fruttava il 10 % annuo.
I Monti erano "vacabili" e "non vacabili " secondo che costituivano titoli di rendita al portatore o nominali. I vacabili venivano ad estinguersi con la morte dei titolari e per questo godevano di un reddito più alto; i non vacabili erano, al contrario, titoli di rendita perpetua e trasmissibili.
I Monti vacabili non avevano, però, nulla a che vedere con gli Uffici vacabili, uffici o titoli onorifici vitalizi che erano dati in appalto o, meglio, messi in vendita dalla. Camera Apostolica. Gli Uffici furono ridotti di numero da Benedetto XIV e più tardi definitivamente soppressi.
A Roma, la prima emissione di un vero e proprio "prestito pubblico " si ebbe nel 1526 e si chiamò Monte della Fede perchè destinato a sopperire alle spese della guerra contro i Turchi, guerra che le complicazioni politiche del momento non consentirono di iniziare.
A questo Monte altri seguirono sotto il pontificato, dello stesso Clemente VII e dei suoi successori, e assai interessante è studiarne il ragguaglio completo, la data di emissione, l'importo di ciascuno, il motivo della creazione.
Così le finanze pontificie si vennero modernizzando, ma al tempo stesso, una siffatta serie dei prestiti dimostrò il loro rapido e progressivo appesantirsi.
Non ci è dato, oggi, renderci conto, nemmeno in via approssimativa, dell'importanza e della diffusione che ebbero per lunghi secoli i Monti, vera spina dorsale del sistema economico di un tempo, che convogliava il denaro privato e lo metteva a disposizione dell'erario.
Si dava, ad esempio, il caso che lo Stato dovesse dare aiuto a qualche comune nell'urgenza di un lavoro di pubblica utilità?
La Camera Apostolica emetteva un a monte " apposito: " Monte Orvieto ", " Monte Viterbo ", ecc.
Una famiglia della grande aristocrazia romana si trovava in una situazione imbarazzante e in bisogno di capitali liquidi?
Rivolgeva domanda al Papa e il Papa accordava che la famiglia Savelli, che la famiglia Aldobrandini costituissero ciascuna un Monte garantito dai propri beni.
Il monte perciò fungeva da esatto e delicato termometro delle finanze centrali e locali, della economia pubblica e privata.
Se i " Monti " costituirono la genesi di una più moderna struttura del congegno statale, ugualmente, un gran progresso si verificò con l'istituzione di un fondo liquido di riserva, sotto l'aspetto di un vero e proprio tesoro monetato.
Anche oggi il visitatore che sale fino alle più alte stanze di Castel S. Angelo, prova un piacevole stupore nell'ammirare, vicino alla biblioteca e alla loggia di Paolo III, i massicci forzieri di rovere in cui Sisto V riponeva i milioni di scudi che andava di anno in anno accumulando con tenacissima cautela.
L'Ab. Antonio Coppi, acuto indagatore della storia delle finanze pontificie, così illustra l'evento: "Sisto V giudicando opportuno di avere un fondo di riserva, radunò e chiuse nel Castello di Sant'Angelo, un tesoro, disponendo che non se ne potesse estrarre alcuna somma, eccettuati alcuni casi di estrema necessità. Esso prese il nome di Erario Sanziore. Nell'anno 1590 ammontava a scudi 4.155.543,20, di cui tre milioni in oro e il resto in argento ".
L'origine, lo sviluppo e la funzione delle riserve auree di Castel S. Angelo sono strettamente connesse alle vicende dello Stato della Chiesa. Su questo interessante soggetto possediamo oggi un'eccellente monografia di F. S. Tuccimei che sulla scorta dei documenti dell'Archivio di Stato ha saputo tracciare la storia quanto mai complessa e movimentata del Tesoro Pontificio.

 L'innovazione di Sisto V va considerata attentamente perchè ci rende più avveduti sull'indole dei tempi per quel che riguarda la questione finanziaria.
Infatti tale tesoro non derivava già da eccedenze di bilancio, ma quasi per intero la costituito mediante il ricavato di prestiti pubblici, ciò che esclude che la sua esistenza fosse indice di una florida situazione finanziaria.
Una riserva, non cospicua come quella di Sisto V, esisteva già da prima e se ne ha notizia fin dal tempo di Paolo II. La somma dei 700 mila ducati di Giulio II, a cui si è accennato, era ugualmente custodita in Castello.
Erano ormai lontani i giorni dei grandi banchieri della rinascenza; erano venuti a estinguersi, anche per la perdita di tante provincie ecclesiastiche, in grandissima parte i tributi della Fede, e alla vecchia tradizione degli oggetti preziosi dati in pegno, Sisto V oppone decisamente il concetto dignitoso e moderno dello Stato che accumula quantità di denaro liquido e lo impaluda nei pingui forzieri.
 
 
E in verità, già Leone X coi Militi di San Pietro e meglio ancora Clemente VII con la creazione dei Monti si volgono fiduciosi verso i sudditi chiedendo prestiti su larga scala e provvedendo al pagamento degli interessi col ricavato delle imposte o il provento di beni demaniali. Le finanze pontificie compiono in pochi decenni una notevole evoluzione e si orientano decisamente verso la duplice fondamentale risorsa delle imposte e del debito pubblico.
Il continuo movimento di denaro portava con sè la necessità, via via più acuta e palese, di disporre di istituti sicuri che regolassero l'afflusso e il deflusso del denaro, ne tutelassero la custodia, ne garantissero l'esatta restituzione.
Nella seconda metà del cinquecento si ebbero numerosi fallimenti. Nel 1594 fallì l'antico e reputato Banco Altoviti per 180 mila scodi, seguito subito dopo da quello degli Ubaldini per 100 mila. Grande fu l'allarme a Roma e fuori.
I depositanti corsero a ritirare le loro somme specialmente presso i banchi di Mazzenghi e di Giov. Franceschini ritenuti poco solidi.
Passò poco tempo e si ebbero i fallimenti del Mannini e del Lusaghi.
In quel momento di marasma, alcuni romani idearono la costituzione di un istituto senza scopo di lucro, che coi suoi beni offrisse garanzia di solidità.
Un cronista in data 1 gennaio 1595 così annotava:
 
" Li signori Matthei et altri primi Romani di questa città. visto andare in malhora tanti mercanti con sì gran danno del terzo, pare si siano risoluti unirsi insieme et erigere un banco Reale per tutti li depositi, in sicurezza dei quali vogliono unire tutti i loro beni et obbligarli con fide, sigurtà, sino alla somma di 300 mila scodi, assicurati tutti in beni stabili ".
Ma il provvido pensiero rimase, per il momento, senza attuazione.

 Esauritasi la funzione storica dei grandi banchieri, l'Italia, al pari delle altre nazioni, non nascondeva la tendenza di porre le funzioni bancarie sotto la vigilanza dello Stato.
il primo esempio l'aveva dato Venezia dove, dopo lunghi dibattiti, nel 1584, era stato fondato il Banco di Rialto, vero e proprio istituto di diritto pubblico che venne presto imitato in Italia e fuori.
Roma che, dal canto suo, rivestiva una particolare importanza nella bilancia economica della penisola, non poteva trascurare l'esame dei sistemi più adatti a tutelare il credito, nonchè l'uso, la funzione e il giro del denaro.
Roma, fin dal 1539, aveva visto sorgere il Monte di Pietà, che fin dai primi decenni, fornendo ai meno abbienti modeste somme a interesse contro pegni, allo scopo di combattere l'usura esercitata su vasta scala dagli ebrei, si meritò molte attenzioni da parte dei pontefici che ne favorirono lo sviluppo. In modo particolare giovò il Breve di Gregorio XIII Inter multiplices del 1° ottobre 1584 con cui si disponeva che i depositi giudiziari superiori a cinque scudi fossero affidati al Monte, il che - osserva il Tamilia - fu per il Monte una fonte inesauribile di ricchezza. Si trattava di denaro liquido affidato in quantità più o meno rilevante senza che su di esso si avesse l'obbligo di corrispondere interessi. Il Monte però non aveva, dal canto suo, possibilità di offrire adeguate garanzie per l'esatta restituzione del denaro, al che si rimediò col far sì che i "fratelli della Congregazione " rimanessero obbligati in proprio. Ciò però non bastava per appagare il pubblico, la cui fede era ormai scossa dai replicati fallimenti dei banchieri privati e dai non infrequenti abusi dei notai ai quali usualmente rimanevano affidati i depositi fiduciari, suscettibili di rapido trapasso, le somme liquide oggetto di lite o presentate in offerta reale di pagamento, le eredità giacenti o controverse, i beni dei minori. Era universalmente diffuso il desiderio che si trovasse il modo di dare più ampie garanzie e che sorgesse un istituto di solida base patrimoniale, posto sotto l'egida dello Stato, verso il quale, oltre i depositi, potessero con piena tranquillità convogliarsi i patrimoni dei privati, i capitali liquidi e le riscossioni dei mercanti.
E invero un'altra istituzione romana, quanto mai antica e rigogliosa, attirava nel contempo, per la sua solidità patrimoniale, l'attenzione dei governanti.
"Monumento insigne della carità romana, degno dell'alma Roma. il più bello e il più grande d'Europa ", come fu con ragione definito, l'Arciospedale di Santo Spirito vantava una tradizione d'austera nobiltà ininterrottamente professata attraverso i secoli.
Sulle vestigia della Schola Saxonum, fondata da re Ina nel Borgo nel 728, il grande Innocenzo III eresse, intorno al 1200, l'ospedale di Santa Maria in Sassia che di lì a poco affidò all'Ordine ospitaliero dei Canonici di Santo Spirito proprio allora fondato da Guido di Montpellier. La benefica istituzione prosperò sotto l'amorevole protezione dei papi, e ricevè generoso impulso da Sisto IV che la richiamò a novella vita, ne ampliò e arricchì l'ambiente. Così l'Arciospedale, sotto la guida del Praeceptor (chiamato, in lingua italiana, il Commendatore di Santo Spirito), salì di mano in mano a grande splendore per la sua importanza sociale, per la bellezza delle sue costruzioni, per la vastità del patrimonio: terreni, feudi, castelli, vastissime tenute nell'Agro Romano, vennero con ritmo confortante a ornarsi dell'emblema dell'Ordine ospitaliero, la doppia croce biforcata sovrastata dallo Spirito Santo raggiante, e costituirono la fonte donde attingere per le incessanti opere di carità rivolte con slancio alla protezione dell'infanzia abbandonata e all'assistenza degli infermi.
 
Intorno alla metà del secolo, la complessità dei patrimoni che formavano la splendida dote dell'Arciospedale, assunse un valore per sè stante, quando in grazia dei nuovi orientamenti della finanza, si vide che poteva fornire una garanzia di superlativa sicurezza.
 
Il Moroni ricorda che " talvolta i beni dell'Ospedale furono dai Papi dati nei bisogni a sicurtà d'imprestito. Paolo IV Carafa ciò fece per avere scudi trentamila che impiegò nel grano necessario a Roma ".
Ugualmente nel corso del Cinquecento si ebbe più di un Monte eretto col nome di Santo Spirito, nome che per se stesso aveva il valore di un'eccellente garanzia, comune, del resto, a tutti i prestiti papali.
Fin dalla loro istituzione i Monti romani avevano offerto la massima sicurezza tanto che parecchie grandi case liguri, dopo aver opportunamente ritirato dall'estero i loro capitali, non avevano esitato di avviarli a tale scopo a Roma. E' naturale che la Camera Apostolica desiderasse il concorso di un nuovo istituto che le agevolasse il compito non lieve di collocare sul mercato i buoni del Tesoro disponibili e di accumulare nelle casse nuovo denaro per il soddisfo delle annualità maturate, la cui cifra veniva a ingoiare ormai non piccola parte delle entrate usuali.
Da questo consegue che il governo era di continuo. nell'opportunità di cercare nuovi acquirenti dei suoi "buoni del tesoro", ossia di sopperire via via, col ricavato della vendita di "Luoghi di Monte", alle occorrenze sempre più numerose del bilancio.
Grande fu il vantaggio, quando questa vasta e complessa operazione d'ordine squisitamente politico si potè realizzare con la creazione di un istituto che, (senza essere per la sua massima parte impegnato in opere caritatevoli come era il Monte di Pietà) si presentasse con l'adamantino splendore di una garanzia di assoluta sicurezza per la custodia e la restituzione dei valori dati in deposito, e che - per di più -avesse, come norma statutaria, l'obbigo di devolvere tutti i suoi capitali liquidi all'acquisto di Luoghi di Monte.
In tal modo, il beneficio per le finanze papali sarebbe stato immediato con diretto e sostanziale alimento all'Erario, così come ugualmente grande, immediato e diretto sarebbe stato il beneficio per il pubblico.
Furono essenzialmente questi i motivi che condussero, in un momento particolarmente delicato per la vita economica romana, alla creazione del Banco di Santo Spirito.

Prima stesura del Breve di fondazione (parte superiore) 1605

 
Roma, vita mia
 Editrice SOPI - Roma
Ermanno Ponti
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