Il processo dei frutti con l'osso e senza l'osso

e altre bizzarrie processuali

 

di ERMANNO PONTI

  

INDICE dell'opera

 

 

Il processo dei frutti con l'osso e senza l'osso

 

" Isola Sabina " fu chiamata un tempo la contrada ai cui margini scorre, da un lato, il Tevere, dall'altro, l'Aniene. Vi si alternarono, nell'età di mezzo, i bizantini, i franchi, i longobardi con prevalenza di questi ultimi, come dimostra il fatto che tardivi rifiessi del diritto longobardico furono riscontrati nello Statuto di Palombara, amena cittadina sita ai piedi del Monte Gennaro. Tale Statuto esisteva sicuramente fin dal 1476, ma il testo che possediamo è soltanto del 1557. Indubbiamente è un fedele rifacimento ed ha il merito di delinearci in modo efficace il tenore di vita di quell'età nei borghi del Lazio.

Ogni anno, il primo di gennaio, si eleggevano quattro massari (più tardi, detti anche "priori") "uomini di specchiata vita e buona coscienza secondo il giudizio e il parere della Corte del feudatario". I massari avevano piena autorità e rappresentavano il Comune: dovevano essere graditi al signore del luogo e da lui confermati nella carica; erano assistiti da sindaci e da consiglieri.

Lo Statuto includeva disposizioni in materia commerciale, civile, penale nonchè " in faccende estraordinarie ". A base dei rapporti tra il popolo e il feudatario stava la corrisposta, tributo annuo consistente in una notevole parte dei prodotti del suolo, per cui «qualunque persona lavorasse in un terreno della Corte o di una Chiesa doveva rispondere un tributo in natura», in proporzione del terreno coltivato, tanto che poteva consistere anche in una semplice «canestra d'uva di due palmi e mezzo di larghezza e alta un palmo».

Tra le varie disposizioni, lo Statuto di Palombara Sabina ne aveva una che già portava il germe della futura controversia: « Ogni persona deve rispondere alla Corte la quinta parte di noci, castagne, fichi, canepa, lino ed altri legumi di qualunque sorta si siano, e chi contravviene paghi ». Perchè la consegna della corrisposta riuscisse esatta, a fine maggio di ogni anno venivano nominati due fattori, uno per la Corte, l'altro pel Comune con l'incarico di stimare pere, mele, e quanto altro fosse stato prodotto nelle singole possessioni. Era prescritto altresì che le vigne, le quali per un intero quinquennio non fossero state lavorate, tornavano in dominio diretto della Corte.

Il 10 gennaio 1557 il signore del luogo, che era il duca Giovanni Savelli ad petitionem et instantiam Comunitatis terrae Palumbariae et illius Massariorum, accettò e controfirmò tali patti e convenzioni che regolavano per l'avvenire le relazioni tra i terrazzani e la Corte.

Torna ad onore dei nobili Savelli aver sempre fatto uso limitato e assai corretto dei propri privilegi, motivo per cui il popolo palombarese vide con dolore la decadenza della potente famiglia. E' facile pensare che nelle grandi amministrazioni patrizie, tenute con patriarcale sinecura, non di rado a mano a mano ai debiti vecchi se ne aggiungessero dei nuovi fino al punto che non potendosi più sostenere, si tramutavano in rovinosa valanga.

Il duca Giovanni, per debiti contratti dagli antenati si accollò 295 luoghi del Monte Stampa, poi, avendo urgenza di denaro, ottenne dal papa di indire - come era uso comune a quei tempi - un pubblico prestito garantito dal patrimonio di famiglia. Si ebbe così il Monte Savello di 1500 luoghi (=cartelle) finchè l'erede di Giovanni creò, alla sua volta, il Monte Savello di seconda erezione, senonchè, alla resa dei conti, i frutti non furono pagati. Figurarsi i creditori! Gridarono, si agitarono, tanto dissero e tanto fecero che la Camera Apostolica intervenne e spedì un suo Commissario che prese possesso di Palombara per procedere alla subasta.

Il cardinale Giulio Savelli e i suoi due nipoti, spaventati dall'incombente rovina, ricorsero allora al pontefice Urbano VIII scongiurandolo a sospenedere la gravosa e umiliante procedura coattiva e per contrario conceder loro di vendere i beni alla buona, ossia a trattativa privata. Si presentò immediatamente una "testa di ferro" che disse d'essere pronto ad acquistare per persona da nominare ed offrì 250 mila scudi "il che saputosi dal principe Marco Antonio Borghese, si dichiarò pronto ad acquistare il feudo di palombara per 385 mila scudi". I Savelli colsero la palla al balzo e il Cardinale Giulio ottenne dal papa un ampio chirografo col quale si dava sicurtà tanto ai creditori quanto ai debitori Savelli giacchè il principe Borghese si accollava le passività pagandone gradatamente l'importo, mentre, per conto loro i Savelli non dovevano essere più molestati. 


Roma, vita mia
 Editrice SOPI - Roma
Ermanno Ponti
sopi@flashnet.it