ERMANNO PONTI

 DONNE E AMORI DI ROMA ROMANTICA

 
 
 
FAUSTINA
o Goethe, il vino, l'amore
 

 

Il Foro Olitorio, il Portico Minucia, il Teatro Marcello, e poi ancora l'Elefante erbario, la Colonna lattaria, i tre piccoli templi, il carcere medievale...

Quanti nomi! che coloriti fondali d'un unico scenario che accompagna il sorgere d'una contrada romana, il suo evolversi, il suo mutarsi! Patinata d'una verdognola luminosità sembra infine adagiarsi in un nome e esprimere con esso l'inconfondibile suo carattere: Piazza Montanara, quartiere generale dell'umile gente di campagna.

Ecco: da un lato della piazza sfocia l'angusta viuzza della Campana, dall'altro la via dei Sugherari coi fornici e le nere volte del Teatro Marcello rimbombanti dei rabbiosi colpi picchiati ritmicamente sulle lame ricurve: l'acciaio delle falci sfavilla nel sole.

Contadini sulla piazza. A frotte, a gruppetti. Chi baratta, chi compra, chi siede inerte, chi s'accorda con l'imprenditore per l'opra in campagna. Qualcuno dorme steso a terra, qualcun altro s'appressa all'Arco dei Saponari, dove il barbiere della Meluccia, lì all'aperto, fa la barba per un baiocco; più in là siedono con aria di sussiego gli "scrivani pubblici" interpreti autorizzati dei sentimenti, dei propositi, delle oscure passioni di tanta brava gente. Uno, loquace così nella stampa del Pinelli, come nei versi del Belli, con voce insinuante adesca i clienti:

 

Signori, chi vo' scrive a la regazza,
Venghino ch'io ciò qua lettre stupenne.
Qua si tiè carta bianca e bone penne,
E l'inchiostro il più mejo de la piazza.
Qua, signori, gnissuno si strapazza,
Le lettre già so fatte coll'N. N.
Basta mettèrci il nome e in un ammènne,
Chi ha prescia d'aspettà, qua si sbarazza.
lo ciò lettre dipinte e tutte belle:
C'è il core co' la frezza e co la fìamma;
C'è il zole co' la luna e co le stelle.
Quant'al prezzo, tra noi ci accomodamo;
Quant'a scrive, io so scrive a sottogamma;
Duncue avanti, signori; andiamo, andiamo.
 

Chi ha cuore di resistere a così mellifluo invito? non viene voglia di sedersi lì, di aprire il cuore a quell'ometto occhialuto e compiacente che ci guarda e scruta i nostri più riposti pensieri ? Potremo invitare in questo l'amabile Placida Delcane che invia un'epistola affettuosa:

 

Cara commare. Piazza Montanara.
 
Oggi, li diciannove del curente.
Ve manno a scrive che sta facciamara
De vostra fija vo' pijà 'n pezzente...
 

La folla si addensa e ci urta. Lasciamo la piazza, prendiamo per il vicolo: una piccola casa a destra, una più piccola ancora a sinistra. Eccoci arrivati: Osteria e locanda della Campana.

Sulla porta dondola una frasca intristita che dice tante cose a chi ha sete! Gli enormi battenti sono spalancati verso la strada. L'interno semibuio s'intuisce colmo di gente. Giunge fino qui un lieto e cordiale brusio.

Entriamo... chissà che non finiremo col trovarci in buona compagnia!

La bottega è lunga, scura, afosa, oppressa dal soffitto bassissimo.

Qualche contadino beve silenziosamente in un angolo; altri sono pronti a riattaccare, con la posta d'una foglietta, una di quelle tremende partite a morra le cui altercazioni lacerano l'aria.

Giriamo l'occhio all'intorno. Dov'è il proprietario, il sor Antonio Camossi, brav'uomo sulla sessantina, che con l'aiuto del nipote manda avanti la baracca?

I due camerieri Toni e Goschi sono intenti a servire, mentre Francesco Vacchini, garzone, sta forse su, nelle camere della piccola bene avviata locanda.

All'improvviso scorgiamo lì nel fondo un gruppo di persone che non ci aspettavamo di trovare qui...

É un gruppo di tedeschi, di buoni artisti, degne figure di quel Settecento bonario e godereccio, placido e sognante che non conosceva ancora la riťoluzione francese e la predicazione sociale di Carlo Marx.

 

* * *

 

Più tardi, uno di quella comitiva, prenderà a rievocare, da par suo, quella scena:

"Qui stava la nostra tavola e c'erano, intorno intorno, dei tedeschi così alla buona.".

Un'aria di cordialità affratella gli animi e avviva e allieta l'umile osteria romana.

All'improvviso i bravi tedeschi interrompono il loro frastornante conversare e si volgono con palese attenzione verso la porta.

Due donne hanno fatto il loro ingresso nell'osteria.

Sono madre e figlia.

La madre è ilare e compiacente, ostenta un'aria di confidente piacevolezza.

La figlia!...

É un'autentica popolana, bruna, formosa, dai grandi occhi fieri e vellutati.

É giovanissima: eppure è già madre e, peggio, è già vedova: - un bravo giovane, le è morto il marito - Domenico Antonini dopo soli sei mesi di matrimonio.

Ma chi pensa a siffatte tristezze di fronte all'appassionante vedovella ?

I tedeschi si levano e salutano in coro le due donne facendo largo al loro tavolo.

Ormai essi le conoscono.

Anzi qualcuno non ha potuto rattenere un impercettibile sorriso, mentre uno di essi - quello laggiù - giovane dall'alta aitante persona, dal portamento nobile e bello, dall'occhio altero e profondo - Filippo Miller pittore, ma in realtà Wolfango Goethe poeta - ha fissato i suoi occhi negli occhi della giovane donna.

É un attimo, ma basta loro per rievocare tante cose.

E si fa avanti con simpatica semplicità: "la piccola cercò un posto, a me di faccia, vicino alla madre; e tanto smosse la panca e così bene seppe armeggiare che mi scoprì alla vista mezzo il viso e tutto il collo...".

Ah, complice amore nel grigio ridotto dell'osteria della Campana ! Quale è dunque la mira di tutto questo segreto armeggiare?

"Più forte ella parlava che non usino le romane; assaggiò, si volse a guardarmi, mescè e sbagliò il bicchiere.

" Il vino fluì sulla tavola ed ella col dito grazioso cominciò a tracciare umidi cerchi sul piano di legno. E il mio nome intrecciò col suo; avidamente, via via seguivo con l'occhio il dito sottile, ed ella bene se ne accorgeva.

"Alfine tracciò rapida il segno del cinque romano e davanti un'asticciola. Non appena io l'ebbi visto, subito intrecciò cerchi su cerchi, per cancellare lettere e cifre; ma restò impressa nel mio occhio l'immagine deliziosa del quattro".

Quattro! le ore quattro di notte, ciò che corrispondeva, secondo l'uso romano d'allora, alle dieci di sera.

Era quella l'ora in cui gli amanti si sarebbero visti: e in tal modo con astuzia, avanti a tante persone ignare la fanciulla che il poeta ha eternato nelle Elegie romane tra uno sguardo acceso e un sorriso sconvolgeva l'animo del poeta innamorato.

" Io era rimasto a sedere senza parole; tra la malizia, il piacere e il desiderio mi morsi a sangue il labbro che bruciava ".

É appena il pomeriggio. Chi dà al cuore che anela la forza di trascorrere in un'opaca attesa tante ore?

"Prima ancora tanto tempo che annotti! E poi ancora quattro ore di attesa! O sommo sole, tu indugi e contempli la tua Roma...".

Mirabile idillio pieno di grazia romantica, fiorito tra le pagane reminiscenze di Roma! Esso meritava bene che un re - Luigi I di Baviera - consacrasse l'umile osteria con la sua presenza e con una lapide marmorea che i moderni non si sono peritati di rimuovere e disperdere:

"ln diese osteria pflegte - Goethe sich zu begeben - Wachrend seinem aufenthalt - in Rom in den jahren - 1786-87-88".

La figura di Faustina riempie di sè tutta la scena. Creatura di sangue e di passione palpita di forte e gioconda paganità.

I critici - è ben vero - han sentenziato che l'amore di Goethe per Faustina è del tutto immaginario e che il grande poeta ha, nelle Elegie, perfino nei particolari, adombrato il suo amore per Cristiana Vulpius.

Ma senza nemmeno sfiorare la complessa questione, basta ricordare le pazienti e fruttuose ricerche con cui uno studioso noto sotto lo pseudonimo di Carletta, sia riuscito a fornire le prove documentali della autenticità storica della Faustina goethiana.

Rovistando gli atti parrocchiali di San Nicola in Carcere e sopratutto gli utilissimi Stati delle anime, è venuta fuori una Faustina, figlia di Giovanni e di Angela Carucci, nata il 24 marzo 1764, che abitava con la famiglia in una specie di grottino a sinistra dell'Arco dei Saponari, all'inizio dell'ascesa di Monte Caprino.

Rimasta vedova, essa deve essere tornata a casa dei suoi, e quando s'incontrò col Goethe, frequentando con la madre l'osteria dei fratelli Camossi al vicolo della Campana, non poteva avere più di 23 anni.

Ora nelle Elegie un tale amore è intuito e rivissuto con ammirabile senso di ambiente. Ogni verso, ogni passo sta a significare un momento, un palpito, un'impressione, un quadretto, e il tutto è reso con rara potenza d'arte.

Quel che vale anche più, è che troviamo rappresentato con somma efficacia e magistrale eleganza di linee, i sentimenti propri di una passionata e fiera popolana di Roma. Essa sente il rossore di aver ceduto al ricco straniero, dietro il complice assenso della madre, e il poeta la conforta: "non ti pentire, o cara, d'essermiti subito arresa! Credi non penso di te con malizia..."., ma essa non manca con vera foga di popolana di prorompere in lamenti per il suo cuore non compreso.

"Ed eccomi, alla fine, anche io ingannata! Tu t'inquieti con me, così per parere, perchè già pensi d'andartene... Vattene! Voi non meritate le donne! Noi portiamo i nostri bimbi qui sotto il cuore, dove portiamo la fede, ma voi uomini..". Così parlò e prendendo il piccolo dalla sedia lo strinse al cuore baciandolo. E avrebbe potuto in modo diverso parlare una popolana di Roma?

Un altro quadretto invece, tutto soffuso delle grazie velate dell'autunno romano, è l'elegia decimasesta:

"Perchè, amico mio, non sei tu venuto oggi alla vigna? Sola, lassù, secondo la promessa, io ti ho aspettato ".

Il poeta risponde:

"Mia diletta, già ero entrato, ma vidi, per fortuna, tuo zio presso ai vitigni che si volgeva qua e là affaccendato. E me ne andai quatto quatto!..".

"Oh, quale abbaglio hai tu preso! Era uno spaventapasseri, quel che t'ha fatto scappare.. "

Queste reminescenze piene di fervorosa realtà ci riportano al colorito quadro, in cui all'avido sguardo del poeta si apre la visione inebriante di una novella ora d'amore...

Faustina, bruna bellezza, romanamente plastica, dovè lampeggiare realmente nello sfondo buio e chiassoso, eppure soavemente idilliaco, dell'Osteria della Campana. Ne è prova il fatto che di lì a qualche anno, a Venezia, il Goethe nelle ore accidiose che gli ispirarono l'amaro aroma degli Epigrammi veneziani sentiva con un acuto brivido il ricordo della bella romana.

 
"Ecco l'Italia, che io già lasciai!
Ancora le strade sono piene di polvere, bello è il paese
ma Faustina
io non ritrovo più: no, più l'Italia
questa non è che con dolor lasciai...
 

 

Roma, vita mia

DONNE E AMORI DI ROMA ROMANTICA

Ermanno Ponti

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