Susanna Sumàn

LA PELLE DEL SERPENTE

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Buongiorno.
Mi piace alzarmi presto d’estate, nell’unico momento fresco di silenzio tra il caldo rumoroso della notte allegra e quello del giorno alla spiaggia. L’unico momento in cui tutti gli altri si addormentano. Ubriachi, stanchi o bruciati dal sole, i miei vicini non mi disturberanno se entrerò nei loro giardini.
Sono abbastanza grande per fare il monello, e soprattutto sono una donna, ma mi diverte troppo introdurmi di nascosto nelle case degli altri; alzarmi piano per non svegliare mia sorella, che non approva i miei orari; cercare qualche indumento a caso, con la sola guida di un filo di luce che Paola non è riuscita a sopprimere con tende sopra le tendine; attenta al cane che dorme ai piedi del letto... ci metto dieci minuti abbondanti a lasciare la camera da letto.
Buongiorno. Me lo ripeto allo specchio del bagno mentre l’acqua scorre, fredda. Immergo il viso nel cavo delle mani piene e ne godo.
Ho ancora in bocca il sapore del dentifricio e sto addentando un limone del signor Di Loreto. Potevo mettermi una maglietta più pesante, accidenti. Ma camminando passerà il freddo e il tempo, vero Pluto? Dividiamoci la colazione da buoni amici.
Certe volte i miei ventidue anni mi sembrano troppi: non me li merito, se è ancora questo l’unico mondo che mi soddisfa, che vivo quando riesco ad essere sola con le cose.
Deve esserci qualche errore, all’anagrafe, a casa mia, che ne so. Forse mi hanno confusa con Paola; tutti credono che sia lei la più grande. E’ così brava, calma e tranquilla anche nei tratti del viso, matura nel modo di vivere come nella forma del corpo; una copia di mia madre, una fotografia. Potrebbe essere nata da lei così, senza padre, dal momento che non porta addosso tracce di altri se non di lei. Si specchiano perciò l’una dall’altra, si amano, si comprendono, si copiano dalla "r" francese alla pettinatura, si vestono con lo stesso guardaroba senza essere ridicole, data la sobrietà della loro eleganza, forse più adatta alla madre che alla figlia.
Ma mia sorella ha rinunciato all’adolescenza dal giorno in cui ha trovato una strada da seguire: seguire mia madre. Ma sarà proprio mia madre? Ho molti dubbi in proposito. Tanto le somiglia Paola, tanto poco io. Anzi, per niente.
Mi ricordo che una volta, commentando una fotografia in cui appariva la famiglia al completo, una "simpatica" amica di Paola domandò chi fosse quella contadinella dall’espressione così seccata seduta all’ombra delle due radiose matrone; che in effetti erano molto belle, elegantemente simmetriche su un divanetto da giardino, i capelli neri, che allora portavano lunghi, raccolti in una morbida identica coda sotto la nuca, la stessa linea sciolta degli abiti per ridurre un po’ la figura, che i grandi sarti volevano minuta e asciutta.
Mio padre, poi, non mi aiutava ad entrare nel gruppo. Quel poco che potevo somigliargli era nascosto dai baffi grigi da generale e dal taglio austero del vestito.
Io dunque restavo un particolare paesistico nella posizione (seduta sull’erba) nell’espressione (una smorfia di disgusto chiaramente diretta la fotografo) e nell’abbigliamento, se così si possono chiamare i pantaloncini di velluto a coste lunghi fino al ginocchio e la maglietta di cotonaccio. Il tutto, naturalmente, su piedi nudi esperti di terra e di sassi.
"Un maschio mancato", dice mio padre, non senza un lampo di orgoglio e di delusione negli occhi e nella voce. Ma mi vede troppo poco per conoscermi a fondo.
Non mi sarebbe piaciuto proprio nascere maschio. I ragazzi che conosco hanno una dose tripla di stupidità delle donne, hanno il carattere più debole, e per la maggior parte i miei coetanei sguazzano in una superficialità insopportabile.
Il bello di essere donna, o comunque femmina, è quello di cercare quello mio, quello più forte di me. E non potrò dire di essere "donna" finché non l’avrò trovato. Perciò continuo a rubare i fiori della vecchia odiosa signorina Immacolata che di senza macchia ha solo il nome.
Mastico una rosa favolosa, piena, profumata, di un rosso intenso; ora é vuota e spennacchiata. Mi piace il sapore dei petali di rosa, fin da piccola razziavo nel giardino di casa. Ora i miei confini si sono allargati, soprattutto grazie alla complicità del cane della signorina, che mi ama quanto il panino col salame che accompagna la mia visita all’alba.
Ciao, cane! Zitto per carità o rovinerai tutto. Mi capisce sempre, ma più che altro mi obbedisce. E questo in fondo non mi diverte, al di fuori dell’utilità che mi porta tenendo la bocca chiusa. Direi che l’obbedienza incondizionata come quella dei cani mi dà un po’ fastidio. La trovo dappertutto: mio padre obbedisce a mia madre, mia madre a mia sorella e viceversa, e tutti quanti, anche se non sembra, obbediscono a me.
E’ pazza, dicono, è così strana; e come se fossi una malata irrecuperabile mi fanno fare ciò che voglio. Dopo una ventina di anni di questa libertà devo risolvere almeno una questione: o sono una specie di genio incompreso ed è quindi giusto che mi obbediscano per istinto come succede sempre con i grandi condottieri oppure sono una povera infelice, come dicono loro, e mi danno la libertà perché non hanno voglia di combattere con la mia insulsa testardaggine.
Dovrei risolverla, ma questo è l’unico punto su cui si concentra e prolifica la mia pigrizia. Mi piacciono i gatti, alcuni caratteri felini mi esaltano. Questo gattone spelacchiato, con le orecchie mozze e il naso graffiato, per esempio, mi fa interrompere la passeggiata perché mi guarda così, con una apparente indifferenza che nasconde un diffidente interesse per ogni mio gesto che studia con gli occhi fissi nei miei,dall’alto di un pilastro. Lo provoco, lo chiamo, lo invito. Mi disprezza. Insisto. Mi odia. Mi volto e me ne vado, con un potente chisenefrega tra i denti, ma non faccio molti passi, perché il micione viene a strofinarsi contro le mie gambe ronfando.
Mi piace, soprattutto perché non si lascia toccare da me, sconosciuta, ma mi testimonia la sua simpatia.
Non è passata ancora nemmeno una macchina, e la strada sembra meno polverosa del solito. Non sono ancora le sette e già sento un piacevole calore sulla pelle. Vale la pena di scendere alla spiaggia: il cielo è limpidissimo, e prelude ad una splendida giornata.
Il mare è un’altra delle mie passioni, ma forse per colpa del carattere un po’ possessivo lo amo solo così, nudo e deserto, nelle ore più impossibili, nella stessa misura in cui lo detesto pieno di barche o di bagnanti, assistito nel suo spettacolo quotidiano da corpi al sole e da ombrelloni disgustosamente colorati.
Da quando ho imparato a disporre da sola del mio tempo, non ho più visto una spiaggia tra le dieci e le due, e cercherò di non vederla mai; mi darebbe lo stesso senso di nausea che penso si provi a incontrare il proprio ex amante sposato con un’altra.
Mare mio. Sento la voglia di parlare, ma parlare da sola, seduta sulla spiaggia, a due passi dal mare, lo sguardo e il pensiero rivolti verso quell’infinito pieno di azzurro, che mi risponde con quei sussurri che solo io so capire. Alzandomi, mi accorgo che la sabbia è umida ancora, ma mentre mi avvio verso il moletto non sento disagio, bensì una sottile soddisfazione: anche oggi sono stata la prima.
Dondolando le gambe giù dall’ultimo sasso del molo, sfioro l’acqua con le dita dei piedi, la faccio schizzare. I granchi mi vedono e si infilano nei buchi, scivolano veloci tra le fessure. Una piccola onda obliqua arriva più in alto, e mi bagna le labbra. La lingua si sazia della goccia salata come se avesse assaggiato le alghe, i pesci e i sassi del mare.
Alzo gli occhi. Un lampo di intenso romanticismo mi scende giù per la gola, nel petto, nel vedere il sole alzarsi sul mare con giochi di luci colorate, abbaglianti; ma mi riprendo subito: ho già visto questa stessa scena in un film, e ci ho riso sopra. Sì, una che guardava il mare all’alba con un volto teso, ispirato, allargando le narici come se volesse aspirare tutto il profumo di salsedine e inebriarsene, mentre un centinaio di violini eseguiva ad altissimo volume il tema del film. E probabilmente, lì come qui, non mancava l’odore pungente del pesce marcio scartato dai pescherecci o peggio, dato lo scenario del porto, qualche scarico di fogna.
Allora canto, con la voce più afona che ho, la canzone più vecchia che ricordo, e non mi sento, coperta dallo sciacquio irregolare delle onde sugli scogli.

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