- P. Romano - E.
Ponti
- MODI DI DIRE
POPOLARI ROMANI
- 1944
-
- Passà
ponte.
-
- Comunemente la notissima frase
si vuole significasse: "aver preso una determinazione, da cui non
era più dato recedere". Più raramente si attribuiva
al motto un significato lugubre e cioè quello di essere
passato al di là, nei regni buj:
- .....
unde
- negant redire
quemquam,
- come dice il poeta.
- Ma più comnunemente la
frase è passata a significare "cambiar casacca", "cambiare
bandiera", in senso politico.
- È facile arguire
l'origine di questo espressivo modo di dire, quando si pensi che
le strade di Roma, strette e spesso tortuose, offrivano agevole
schermo sia alle raffiche ai vento d'inverno, sia alle vampe del
sole nei mesi estivi.
- Pregiudizio assai diffuso,
perciò, era quello di attraversare i ponti per il timore di
buscarsi secondo le opposte stagioni, o una puntura (leggi
pleurite), o un'accidente (leggi insolazione).
- A conferma, riportiamo alcuni
Avvisi di Roma, che a noi - avvezzi a girare anche sotto il
solleone a capo scoperto - sembrano assai strani.
Eccoli:
- "29 maggio 1677
- Diversi cardinali si sono dichiarati di non volersi portare
più nelle Congregazioni che si faranno al Vaticano, per non
essere il ponte (S. Angelo) da passare viaggio
d'estate". (Cod. Barberini
6417 della Vaticana). Un successivo avviso (5 giugno) dimostra che
furono di parola, dandoci notizia che Innocenzo XI aveva
intenzione di non lasciare "l'abitatione di San Pietro",
nonostante "i rigori della stagione"; ma che fu costretto a mutar
consiglio, appunto per le proteste dei porporati. Infatti un terzo
Avviso, del giorno 19 di detto mese, riferisce: " Si è
finalmente Sua Santità risoluta di passarsene al Quirinale,
costrettovi dalla mancanza delli Cardinali che per non passare il
ponte nelli presenti caldi tralasciano sino le Congregationi, et
il cardinale Carafa che non andava pìù nemmeno in
quelle di consulta, disse alli suoi confidenti essergli di gusto
la dimora di Sua Santità in S. Pietro, mentre egli gode la
pace et il riposo nella propria casa" (lb.) Il porporato
abitava al Quirinale.
- Per evitare i rigori
dell'inverno e i cocenti raggi solari di estate, si pensò
più volte di coprire il ponte S. Angelo anzi, qualcuno
pretende che effettivamente un tempo tale provvedimento sia stato
realizzato.
- "E' opinione di molti- scrive
l'Alveri- che diversi pontefici abbiano voluto coprirlo per
renderlo praticabile anche d'estate (perchè in tale
stagione sono così cocenti e maligni i raggi del sole, che
non vi si può passare per il gran calore) ma per non
impedire la vedata del Castello non fu mai effettuato il disegno
".
- Invece il Vasari, a proposito
di L. B. Alberti, dice: "Ha disegnato il ponte S. Angelo ed il
coperto che col disegno suo vi fu fatto ad uso di loggia per
difesa del sole in tempi di estate e delle pioggie e de' venti
l'inverno, le quali opere gli fece fare papa Niccolò (V),
che aveva disegnato farne molte altre simili per tutta Roma, ma la
morte vi s'interpose".
- Crediamo che questa copertura
sia rimasta effettivamente allo stato di progetto. Nell'Archivio
Vaticano (arm,. XV, 44, Miscellanea), si conservano due fogli in
cui si espone il " modo di rimediare all'incomodo del ponte S.
Angelo e degli altri di Roma per i tempi d'estate". L'Anonimo
risolve il problema proponendo dl coprire i ponti con tende
scorrevoli.(P. Romano, Il rione Ponte, vol. III, p.
33).
- Da ultimo ricordiamo come il
pregiudizio di cui sopra, oltre che nell'animo di eminenti
personaggi fosse radicato profondamente nei convincimenti del
popolo, soprattutto trasteverino, il quale, fra l'altro, fino
almeno a varie diecine d'anni addietro si vantava appunto " de
non passà ponte" e di vivere isolato, conservando cosi
il tipico carattere romano.
-
- Nun
créde manco ar pancotto.
-
- Come è noto, il pancotto
consiste in una zuppa di pane bollito e condito con olio, talvolta
anche "cor zibibbo ". Era ritenuta un tempo come un medicinale di
prim'ordine, specialmente per le nutrici. Non giudicare efficace
questa cura, era da miscredente. " Nun créde manco ar
pancotto", dunque, vale ritenersi ateo perfetto.
-
- Sammarco
!...
-
- Colorita espressione atta a
significare un'azione alla quale non e stato possibile
sottrarsi.
- Ha riscontro con il noto modo
proverbiale: "Sammarco fa fa le cerase pe'
forza".
- Se ne dà ragione dalla
credenza -un tempo diffusa tra il popolo - che il 25 aprile,
festività del santo, il papa esigesse sulla sua mensa un
piatto di ciliege e che, per ottenere ciò, costringesse gli
alberi che le producono a maturare ad ogni costo per quella data,
anche se la stagione non era propizia.
- Secondo un'altra versione, il
saporoso frutto sarebbe stato miracolosamente fatto maturare
dall'EvangeIista, per togliere dalle angustie un povero
giardiniere in procinto di finire per mano del
carnefice.
- Tornando alla citata
esclamazione, ricordiamo il sonetto belliano " Campo Vaccino" (1,
58), in cui, a proposito dell'arco di Tito e degli ebrei che
sarebbero stati costretti a passarvi sotto, il poeta dice che
l'imperatore
-
- .... scrivette a
Roma a un omo dotto
- cusì e cosi
che frabicassi un arco
- co' li cudrini der
gioco dell'otto.
- Si ce passòmm
li Giudii? Sammarco!
- Ma adesso, prima de
passacce sotto,
- se fariano
ferrà dar maniscarco...
-
- Notiamo incidentalmente che il
Morandi dà un'altra interpretazione alla suddetta leggenda
delle cerase. Scrive che essa anche nelle Marche e nell'Umbria "
deriva evidentemente dal potersi dire quasi maturate per forza
le poche ciliege che si trovano mangiabili in queste regioni, nel
giorno della festa di San Marco, cioé il 25 aprile. Il
popolo però la crede derivata dall'essere questo santo
preso incomodo di far maturare per forza in detto giorno un albero
di ciliege del giardino papale per appagare la voglia oi un papa
che le desiderava ardentemente".
- Oltre l'espressione "Sammarco"
per denotare un atto compito per forza, se ne ha un'altra.
S'invoca cioè un immaginarie, santo creato dalla fantasia
del popolo: "San Forzino ". (Dinanzi al bisogno,
alla necessità, alla forza, bisogna chinare il capo e
rassegnarsi).
- Non deve maravigliare come il
popolino ricorra spesso, senza rispetto alcuno, a dar nomee a un
santo mai esistito, e cio per suoi particolari motivi di
adattamento "San Crepazio", oppure " San Strozzino",
due esclamazioni di maraviglia, se non di ammirazione, dirette
verso qualche fenomenale mangiatore. "San Guercino", per
chi urta altrui per disattenzione, quasi per difetto di vista.
"San Mucchione", altro santo immaginario, e così
via.
-
- Passà
pe' er vicolo der Vantaggio.
-
- Si dice di chi abbandona i
retti principii e cerca con qualunque mezzo un utile immediato. Il
vicolo, oggi via, del Vantaggio, dal Corso, traversando Ripetta,
fa capo alla cosi detta Passeggiata. cioe verso il
Tevere.
- Il Belli, nel suo sonetto " La
spia", così ammonisce colui che cerca il proprio vantaggio
facendo il soverchiatore. Dice:
-
- Nun arzamo pero
tutto 'sto fume,
- Per via ch'er
vicoletto der vantaggio
- Sor cavajere mio,
riesce a fiume
-
- Già
ch'amo fatto trenta, famo trentuno!
-
- Cominciamo col notare, una
volta per sempre, come sia stato dei Romani di una volta (e il
caso non è neppure difficile a riscontrarsi oggi) di usare
il plurale in tutte le loro manifestazioni, quasi fossero
costituti eredi de' latini. E tale consuetudine si riscontrava
anche in classi modeste, se non proprio umili. Qualcuno tuttora
ricorda - ad esempio - il " sor" Giovanni, vecchio e fidato
cameriere di mons. Giulio Lenti, Vicegerente, il quale appunto per
la sua carica spesso procedeva alla Cresima dei giovanetti. Quante
volte abbiamo inteso il "sor" Giovanni esclamare con aria di
stanchezza: " Oggi abbiamo fatte una sessantina di
cresime".
- Per la verità delle
cose, affaticato poteva dirsi soltanto il vescovo Lenti, che era
anche corpulento e in tarda età sofferente di asma, mentre
il cameriere si limltava ... a ricevere qualche eventuale
mancia!
- Ma, riprendendo il filo del
discorso, rileveremo che la frase " Già ch'amo fatto
trenta, famo trentuno" stava a significare che compiuto uno
sforzo, poco costava ampliarlo limitatamente, e fare ancora un
piccolo passo avanti.
- L'origine di tale motto si fa
risalire a papa Leone X, allorché nel giugno 1517
procedette a compilare una lista di nuovi cardinali. Il papa
intese fare le cose in grande. Fino a quel momento il Sacro
Collegio aveva avuto un numero piuttosto esiguo di componenti (24
al massimo), ma Leone intendeva derogare dall'uso e compiere
ardite innovazioni.
- Dapprima ideò di creare
12 cardinali in una sola volta, poi il numero salì a 20,
infine (nonostante il malumore e le opposizioni dei vecchi
cardinali) a 27, conferendo la porpora a capi di ordini religiosi,
teologi insigni, oratori di chiaro nome, membri di grandi
famiglie, tra cui ben sette appartenenti a nobili ceppi romani.
Con un ultimo gesto d'autorità, il pontefice ampliò
ancora il numero degli eligendi e lo portò a 30,
promettendo a se stesso di non varcare un tal limite.
- Ed il 1 luglio 1517 il
pontefice compì la strabiliante e mai vista elezione. I
porporati non erano però il numero preannunziato, ma uno di
più...
- Infatti, proprio all'ultimo
momento, un fidato consigliere si premurò avvertire il papa
che fra tanti nomi ragguardevoli ne era stato omesso uno
sostanzialmente insigne per virtù, talento e
meriti.
- Il papa ascoltò,
comprese, approvò. E allora, con olimpica calma tirò
fuori la sua lista, v'incluse ancora un nome e a operazione fatta
sentenziò: "Tanto è trenta che trentuno! ". Il motto
arguto e sensato si diffuse eome un lampo, prese consistenza
vitale, entrò a far parte del patrimonio linguistico e
ancora oggi fiorisce, vivido e fresco, sulla bocca di
tutti...
-
- Ridusse
ar verde.
-
- Restare assolutamente
sprovvisto di mezzi. Il verde è stato sempre il colore
della speranza e... della
- "micragna".
- Chi non ricorda il verso del
Petrarca:
-
- "Quando mia speme
gia ridotta al verde"
- o quello di Dante per esprimere
la stessa idea:
-
- "Mentre che la
speranza ha fior di verde"?
- Il Dubino, riferendosi al
linguaggio latino, rivela che forse anche da esso si può
ricavare una spiegazione più filosofica della frase. Gli
antichi Romani, infatti - dice - avevano un proverbio assai
analogo, ed era il motto "herbam porrigere". Tal proverbio
ebbe origine dal fatto che gli assediati allorchè si
confessavano vinti, avevano il costume di presentare, in segno di
loro sottomissione, dell'erba al vincitore, significando con
ciò che essi cedevano perfino la terra loro nutrice e
quella che ricopriva le ceneri de' loro morti.
- Ma la materialità del
motto romanesco è propriamente dovuta all'uso d'imporre ai
falliti un berretto verde per copricapo, allo scopo di "prevenire
il popolo dall'essere ingannato in qualunque commercio
".
- Tale costume fu introdotto in
Roma da Paolo IV. Al Motuproprio di questo pontefice ne
seguì altro più rigoroso di Pio IV, in data 27
ottobre 1561. Ne riportiamo un largo riassunto non solo per la sua
importanza, ma anche perchè inedito. Comincia
così:
- "Desiderando ai mercanti ed
altre persone di quest'alma città, quanto forestiere,
concedere ogni possibilità di contrarre con chicchessia in
Roma e toglier di mezzo ogni via ed anche tutte le dilazioni per
le quali i debitori possano sfuggire al pagamento dei debiti, e in
qualunque modo sottrarsi e defraudare i creditori e soppiantarli,
e trovare un rimedio opportuno ad evitare quanto si è
detto, e perchè anche i debitori si astengano da ciò
che si è deplorato, se non per il timore di Dio
onnipotente, per non incorrere almeno nella pubblica ignominia, e
volendo così provvedere alla sicurezza dei mercanti e delle
altre persone; considerando pure il motuproprio di Paolo papa IV,
nostro precedessore " - e precisamente tenendo conto di quanto
in esso disposto, in relazione agli statuti di Roma -
"stabiliamo che i falliti ora e sempre siano tenuti a portare
un berretto verde ".
- Pio IV prosegue decretando che
non possano esimersi dall'indossarlo neppure per concessione
dell'Uditore della Camera Apostolica, del suo Luogotenente, o del
Vicario di Roma, o del Governatore, del Senatore, di altri giudici
della città, anche Commissari e perfino dei visitatori
delle carceri.
- Se poi íl fallito era
sorpreso senza il berretto, veniva condannato "alla
fustigazione per la città la prima volta, al remo per la
seconda ".
- Le disposizioni di Pio IV
potranno sembrare rigorose a qualcuno, eppure sono ben miti in
confronlo di altre prese in varie regioni e nella stessa Roma in
antichissimo tempo, prima che "il diritto pretorio, mitigando la
crudele giustizia sanzionata contro i debitori nelle Xll Tavole"
stabilisse "che coloro i quali non potevano pagare, invece di
essere fatti schiavi o tagliati a pezzi e
divisi i loro corpi fra i creditori, potessero a costoro cedere i
loro beni, rimanendo così prosciolti da ogni
obbligazione". Le formalità antiche - prosegue il
Dubino- "consistevano nel chiedere innanzi al pretore che il
debitore pagasse le sue passività: "Stiche, solve
debitum" (Stico, paga il tuo debito). Se Stico avesse
manifestato che non poteva pagare, rispondendo: "Non possuml
cedo bonis" (non posso cedo beni), allora avea luogo la
seguente formalità. Il debitore si portava innanzi ad una
gran lastra di marmo. Quivi un araldo gridava per tre volte al
pubblico che Stico, ossia il debitore, cedeva i beni. Quindi,
rivoltosi al debitore stesso, gli dava una gran spinta che gli
faceva battere il sedere su quella pietra e lo mandava con le
gambe all'aria ".
-
- Ecco con ciò l'origine
di altro modo di dire romanesco:
- "Annà
co le zampe per aria".
-
- Questa procedura fu proseguita
in varie città d'Italia nel medio evo; in Firenze al
Mercato Vecchio si conservò lungamente una gran pietra che
serviva precisamente per detto uso.
- Ascanio Ottorsi, signore di
Matelica, nel 1520 emanò una legge relativa al fallimento e
la fece inserire negli Statuti. Con essa si decretava che doveva
il fallito presentarsi nella sala del podestà indossando
soltanto pantaloni, scarpe e mantello, senza berretto in capo.
Giunto alla porta della cancelleria, innanzi ai familiari e membri
del podestà, aveva da proferire queste parole: - "Cedo
li miei beni e per questo nessuno mai più mi
creda".
- Allora un trombetto notificava
al popolo il fallimento. I ministri di giustizia lo trascinavano
fuori della sala e lo conducevano alla piazza obbligandolo a
girarla d'intorno, e ad ogni passo per dodici volte era tenuto a
ripetere la frase, Dopo la quale si replicavá il suon di
tromba, e ciò fatto si restituiva al fallito la
libertà. (Moroni, Dizionario, vol 44, p. 211).
-
- Taja
ch'è rosso !....
-
- Era il grido consueto de'
cocomerari, specialmente nela mostra dell'apprezzato e saporoso
frutto delI'estate nostra, che si usava in piazza Navona, in
occasione della così detta festa del Lago, ovvero nella
sagra che si teneva all'isoletta di San Bartolomeo.
- Ma i Romani, in realtà,
rivoltarono la frase a signif1care " I'abbandono di ogni riguardo
od esitazione"
- In questa maniera efficacemente
e usata dal Belli in un sonetto (vol. I. 144), in cui un popolano.
pur non scusando il terribile atto del fratricida Caino, ne
esplora l'animo amareggiato dall'inutitità delle proprie
offerte e perciò sconvolto dall'ira e dalla gelosia, onde a
un dato momento rompe ogni indugio e passa all'azione
delittuosa:
-
- Ma quer vede
ch'lddio sempre ar su mèle
- e a le sue rape je
sputava addosso,
- e nó ar latte
e a le pecore d'Abbele,
- a un omo com' e noi
de carne ed osso
- aveva assai da
inacidije er fèle:
- e allora, amico mio,
taja ch'è rosso.
- Non si esclude, infatti, che in
antico tempo alla frase si desse significato metafisico del taglio
della
- testa. Ne dà autorevole
testimonianza il Chiappini nel sonetto "in sala de su' Eminenza",
dove il decano,
- a proposito del rinnovo della
ghigliottina, dice fra l'altro:
-
- Sappi ch'er papa...
ma per cristallina
- Fa' l'omo.., er
papa, intesa 'sta pappina,
- Ha fatto fa' le
cajottine nòve.
- Taja ch'è
rosso! Co' 'sta gente tanto
- Nun ce vò ne
pietà nè compassione...
- Gnentaccio. Appena
je se dà de guanto...
- Je se taja a
dirittura er coccialone;
- Poi doppo se
farà un brav'anno santo..,
- E
aritrionferà la riligione.
-
- Frascati
chiuso!
-
- Chiusura cioè di ogni
strada verso il raggiungimento di un dato scopo. Ecco
un'espressione che come abbiamo rammentato nel proemio - ci
dà la possibilita immediata di rievocare un curioso
particolare di vita del passato.
- Nel 1856 veniva inaugurata la
prima linea ferroviaria dello Stato Pontificio: la Roma-Frascati.
Per essere più esatti, la linea giungeva alla
località detta Campitello, a mezz'ora di carrozza dalla
ridente cittadina, e soltanto 27 anni dopo fu proseguita sino alla
attuale stazione e inaugurata dal ministro Baccarini.
- Appena aperta all'esercizio,
l'affluenza dapprima risultò molto scarsa. Ma in appresso,
attratti dalla curiosità del nuovo mezzo di trasporto e
dall'incanto del paesaggio, i viaggiatori si moltiplicarono a
segno che le scarse vetture che componevano il treno divennero
insufficienti.
- Quando essere erano al
completo, cessava la vendita dei biglietti e l'impiegato gridava:
Frascati chiuso!
- Da ciò il sarcastico
detto romanesco, sempre in voga.
-
- Nun
so' fiaschi che s'abbottano.
-
- Risposta generalmente data da
chi, stimolato a compiere con eccessiva sollecitudine un lavoro di
una certa difficoltà, obietta che esso non può
eseguirsi con la facilità e rapidità con le quali in
vetreria si foggiano i fiaschi. Strano, poi, che mentre si giudica
agevole operazione fabbricare tali recipienti, ci sia la frase
usatissima "far fiasco"!
- A tal proposito si racconta che
uno straniero vedendo lavorare un vetraro romano all'Arco
dell'Annunziata, preso la torre degli Anguillara (vetreria in
appresso trasferita in altro luogo), credè che nulla fosse
più facile dell'imitarlo. Si diede dunque a soffiare, ma
invece della misura, per quanto ci rimettesse i polmoni, non
giunse che a farne uno di grandi dimensioni. Un secondo e terzo
tentativo non ottene esito migliore: più soffiava e
più i fiaschi s'ingrandivano. Da qui l'origine, si pretende
da alcuni, del motto "fa' fiasco".
- Altri, ricordando Orazio che
dice:
-
- .... Amphora
coepit
- Institui: currente
rota cur urceus exit?
-
- Ritengono che il "far fiasco"
sia la seconda parte del motto del poeta venosino, che sottintende
la prima: "Essendo il fiasco un vilissimo vasello di vetro
(urceus) l'averne fatto uno quando invece si voleva formare
alcun nobile vasello (amphora), può considerarsi
come il simbolo, il tipo dei disegni falliti delle ambizioni
deluse."
- Altri, infine, pretende che
"far fiasco" derivi dal tedesco "fehlschlaghen"
(sbagliare il colpo) e che al tempo della dominazione austriaca
del Lombardo Veneto, il motto si sia diffuso in Italia e
specialmente nell'Urbe. Ne dubitiamo. Rammentiamo anche che a Roma
se uno "fa fiasco" clamorosamente, si dice "fa' 'na
damigiana".
- Vogliamo infine ricordare la
frase "abbottà er grugno" nella quale ha un saporoso
rilievo quel verbo "abbottà", ossia gonfiare, che dà
così giusto tono al motto riferito ai fiaschi.
-